Questa sera la mia Modena ricorderà il suo lutto più fresco, la scomparsa di Edmondo Berselli che se n’è andato davvero troppo presto, l’11 aprile scorso. Sarà un tributo in musica, proprio in quel 29 settembre che per Berselli era prima di tutto una canzone indimenticabile, non certo il compleanno di Silvio Berlusconi. L’ho conosciuto purtroppo troppo poco, Berselli, gli ho parlato soltanto un paio di volte ma lo consideravo il tipo di giornalista che volevo (e vorrei) diventare, con quel sorriso obliquo tipicamente emiliano che gli permetteva di osservare il basso impero romano senza quella complicità inevitabile che ha chi vive nella capitale.

Direttore della rivista “Il Mulino” per tanti anni, editorialista, scrittore che si dedicava con la stessa attenzione alla filologia di Mogol e all’etica protestante di Max Weber, Berselli era il genere di intellettuale di cui questo Paese ha sempre più bisogno. Non partigiano, osservatore partecipe ma distaccato, mai banale. Come il suo ultimo libro, con cui è riuscito a lasciare un contributo che gli sopravviverà. Rapido ed essenziale come solo chi ha troppo rispetto del lettore per ammorbarlo con l’erudizione, “L’Economia giusta” (Einaudi) lascia una ricetta certamente socialdemocratica, di sinistra, ma soprattutto emiliana, per sopravvivere alla crisi.

La crescita non ci sarà più come prima, è la facile profezia di Berselli, ma soprattutto non si potrà più credere nella “super-tesi” liberista secondo cui un Paese è soltanto l’insieme dei suoi individui che, ciascuno per suo conto, fanno aumentare il Pil perseguendo il proprio benessere individuale. Le teorie marginaliste (più si ha, più si è felici) hanno fatto il loro tempo, anche per la semplice ragioni che non sono più politicamente utili. Puntare tutto sull’avidità individuale, sull’ “arricchirsi è glorioso” (come diceva Deng Xiaoping), significa affidarsi a spinte ormai esaurite. “Ecco la parola maledetta: povertà”, scrive Berselli nelle ultime pagine del suo saggio che non sono però completamente prive di speranza.

E mi piace pensare che quel vago ottimismo (cattocomunista, direbbe qualcuno banalizzando) che comunque si respira ne libro sia anche frutto della sua modenesità. Non per una questione campanilistica, ma perché in Emilia agli spiriti animali del capitalismo non ci ha mai creduto nessuno, ai libri dell’ultradestra individualista di Ayn Rand (la felicità è solo possesso e successo, tutto individuale) si contrappone la tradizione dello gnocco fritto e delle feste dell’Unità. Dove persino il capitalismo più spregiudicato, quello delle cooperative che prosperano all’ombra della politica e grazie a benefici fiscali opinabili, è collettivo. Dove gli asili nido funzionano e i libri in biblioteca sono a vista, a portata di mano (quando cerco una sintesi di cosa significhi la sinistra penso alla biblioteca civica di Modena, dove ho passato tante ore e da cui ho preso in prestito libri a quintali).

E da lì, dalla collettività intesa come “comunità solidale” (contrapposta alla “comunità egoista”, come dice Sergio Chiamparino), secondo Berselli si deve ripartire. Con l’idea che diventare tutti più poveri è meno doloroso se si pensa anche agli altri, visto che “è molto probabile che la nuova sintesi debba fare i conti con un aumento della povertà, o perlomeno una condizione generale della società in cui non sarà possibile mantenere tutti gli istituti e strumenti di welfare”. E quindi bisognerà valutare con attenzione cosa tagliare, chi tutelare e come.

Almeno per un giorno Modena celebra Berselli come forse gli sarebbe piaciuto di più, con le canzoni. A noi modenesi espatriati non resta che rileggerci i suoi saggi, magari con Lucio Battisti in sottofondo.

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