All’Italia, e a Roma, la sua città, paga un affettuoso tributo: il nome del locale. Campo de’ fiori: così si chiama il ristorante che Andrea Dal Monte, 42enne con la faccia da ragazzino, ha aperto a New York solo due mesi fa. A riprova che l’American way of life non è solo mitologia, il ristorante è già finito sul New York Times. “Credo sia la prima volta che un locale viene recensito sul New York Times così a ridosso della data di apertura”, confessa orgoglioso Dal Monte. Il frutto di un duro lavoro, certo, ma anche “qualcosa di impensabile in Italia”.

La sua è una delle sempre più numerose storie di frustrazione italiana che si tramutano in un successo all’estero. Dal Monte lascia l’Italia perché è arrivato all’esasperazione in tutti i contesti professionali in cui ha lavorato. Nel suo caso sono principalmente due: il cinema e la ristorazione. Per circa 10 anni è alla Cecchi Gori come ufficio stampa e come sceneggiatore. Scrive diverse sceneggiature (una di queste probabilmente entrerà in fase di produzione quest’anno, “dopo solo 6 anni!”, commenta lui caustico), fa il ghost-writer per i comici più famosi d’Italia, all’epoca nella scuderia Cecchi Gori. “Ma loro non lo ammetteranno mai, mai farebbero pubblicità a un giovane sceneggiatore”. Perché, spiega, il modello italiano è questo: “Tu vieni succhiato, le tue competenze vengono sfruttate, ma tu non devi mai figurare”. Poi la fine della Cecchi Gori: “Allora mi sono accorto che il cinema italiano era morto”.

Il numero di film prodotti cala verticalmente di anno in anno, c’è un crollo del settore privato, sopravvive solo chi si accaparra i finanziamenti pubblici e mantenersi come sceneggiatore è un’utopia. Il mercato è talmente stretto e soffocante che conviene cambiare ambito. Meglio se muniti di una seconda passione. Così Dal Monte si lancia nella ristorazione. Nel 2004 insieme ad alcuni soci apre un ristorante a Trastevere, lo lascia nel 2006 e ne fonda un altro nel 2008, che presto si guadagna la prima stella Michelin. Ma anche la vita da imprenditore in Italia si rivela un incubo: si è costantemente soggetti a balzelli, a lungaggini burocratiche snervanti, a controlli che spesso, dice Dal Monte, seguono la logica del pizzo. Da qui a decidere di andarsene il passo è brevissimo.

Nel 2008 sbarca a New York con sua moglie come il più classico dei migranti: munito solo di due valigie e della sua determinazione. Per due mesi dormono letteralmente per terra perché non possono comprare il mobilio, però il lavoro arriva subito: prima in un ristorante italiano di Manhattan, poi, come manager e sommelier, nella Mecca dei ristoranti italiani a New York: il Del Posto. Infine, la scelta di mettersi in proprio. E il successo immediato – grazie al più famoso food blogger americano che si incuriosisce e scrive un post sul nuovo locale dopo aver spulciato tra gli annunci di Craiglist e aver trovato quello di Dal Monte che cerca personale. Poi tutti gli altri giornali, fino al New York Times. “That’s America”, chiosa divertito Dal Monte: “La differenza con l’Italia è che qui il tuo unico limite sei tu, in Italia il limite è ambientale”. E affidarsi alle regole nel Belpaese non paga, visto che c’è sempre chi sa come vincere senza nemmeno gareggiare.

Nostalgia? “Nessuna. L’ultima volta che sono stato a Roma ho trovato molti negozi chiusi e un’atmosfera cupa, triste, di insoddisfazione. È il Paese più bello del mondo, ma farò come gli americani: solo in vacanza”.

di Benedetta Fallucchi

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