Il guaio dello Ior è che non è mai guarito del tutto. Benché i cardinali tedeschi e americani, che reggono il borsello delle grandi donazioni per il Papa, abbiano preteso negli anni Ottanta una svolta dopo il crac dell’Ambrosiano e lo scandalo Marcinkus, benché si siano succeduti alla presidenza due personalità come Angelo Caloja ed Ettore Gotti Tedeschi impegnati a farlo diventare una banca trasparente, è talmente labirintico l’intreccio dei suoi conti che nessuna dubita di poter trovare nei suoi armadi qualche scheletro ancora.

Certo, la fase più avventurosa e irresponsabile si è chiusa nel 1984, quando a Ginevra di fronte all’establishment bancario internazionale, creditore dell’Ambrosiano, il Vaticano dovette pagare a denti stretti 406 milioni di dollari per il suo coinvolgimento nella colossale bancarotta della banca. Erano state le amicizie pericolose di mons. Paul Casimir Marcinkus, direttore dello Ior e organizzatore dei viaggi di papa Wojtyla, a creare l’incresciosa situazione. In cambio di finanziamenti clandestini a Solidarnosc, il sindacato polacco in lotta contro il regime comunista, Marcinkus aveva rilasciato le famose lettere di patronage a Roberto Calvi, garantendo per una serie di società fantasma che avevano permesso al banchiere milanese di condurre le sue catastrofiche operazioni.

“Non siamo una repubblica delle banane”, tuonò in parlamento l’8 ottobre 1982 l’allora ministro del Tesoro Beniamino Andreatta, denunciando il buco di due miliardi di dollari dell’Ambrosiano, di cui un miliardo e 159 milioni garantiti dallo Ior. Da buon cattolico democratico, fedele al Vangelo e alla Repubblica, Andreatta avrebbe voluto andare fino in fondo. L’Ambrosiano fu liquidato, ma Marcinkus si salvò. Indagato nel 1987 per concorso in bancarotta fraudolenta e colpito da mandato di cattura, il monsignore americano, amante del base-ball e del golf, la fece franca perché la Cassazione accettò la ridicola tesi che la banca vaticana fosse un “organo centrale della Chiesa cattolica” e quindi i suoi responsabili fossero protetti dall’immunità i forza dei Patti Lateranensi.

L’Italia si può ingannare, ma non i banchieri. Perciò, saggiamente, il segretario di stato vaticano Agostino Casaroli chiuse la vicenda con il “contributo volontario” dei quattrocento milioni di dollari, pur proclamando ufficialmente l’“estraneità” della Santa Sede ai maneggi di Calvi. Il risanamento dello Ior comincia da lì, sotto la direzione di una commissione cardinalizia e la chiamata alla presidenza nel 1989 dell’economista Angelo Caloja. “Noi amministriamo – spiegò a Famiglia Cristiana nel 2009, poco prima di lasciare – le risorse, che ci sono affidate dalla comunità ecclesiale valorizzandole al meglio, ma con investimenti chiari, semplici, eticamente fondati”.

Lo Ior ideale, quello delle speranze di Caloja e dei progetti dell’attuale presidente Gotti Tedeschi, è questo. Ma nel frattempo si è scoperto che anche dopo l’annunciata operazione pulizia i canali dello Ior sono serviti per operazioni maleodoranti. Basti un nome: Enimont. E soprattutto, aggirando gli sforzi di Caloja, ha continuato ad esistere uno “Ior parallelo”, fatto di conti opachi impiegati per operazioni per niente trasparenti come ha documentato Gianluigi Nuzzi nel suo affascinante “Vaticano S.p.a.”, basato su documenti “dall’interno”. Regista di operazioni dal valore di 310 miliardi di lire è stato il “prelato” dello Ior, mons. Donato De Bonis. Caloja stesso, allarmato, mandò un rapporto segreto a papa Wojtyla. Ma non sembra che sia riuscito a imporsi. Unico risultato è che dopo la morte di De Bonis, avvenuta nel 2001, il Vaticano ha rinunciato prudentemente a nominare un nuovo “prelato dell’Istituto”.

Gotti Tedeschi, arrivato esattamente un anno fa, è certamente la personalità che più vuole una banca vaticana pulita. Sua è la decisione di far aderire lo Ior alla convenzione internazionale anti-riciclaggio. Perciò si comprende il suo stato d’animo “umiliato”. Ma interessante è specialmente la reazione della Santa Sede, pubblicata sulla prima pagina dell’Osservatore Romano. Pur esprimendo perplessità per l’intervento della Guardia di Finanza, il Vaticano ci tiene a ribadire la sua “chiara volontà, più volte manifestata, di piena trasparenza per quanto riguarda le operazioni finanziarie dell’Istituto per le Opere di Religione”. Segno che la lezione del caso Marcinkus è stata metabolizzata e c’è solo una strategia possibile: fare pulizia anche nei cassetti più nascosti.

Da il Fatto Quotidiano del 22 settembre 2010

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