Lui l’ha fatto. Ha mollato tutto. Carriera certa, sicura, stabile. Giacca e cravatta, codice e cavilli. Basta. A due esami dalla laurea in Giurisprudenza, ha appeso la toga al chiodo e ha indossato grembiule e cappello. Obiettivo: diventare chef. C’è riuscito. Antonio Raffaele, originario di Pola, Calabria, in neanche quindici anni ha scalato le vette del gusto italiano, e non solo, fino a conquistare, nel 2008, il premio come miglior chef italiano “e ora punto alle stelle Michelin”, racconta. Dopo un vagare nelle migliori cucine dello Stivale, da Vissani al Four Season di Milano, ora ha il suo spazio all’interno Art hotel Clarion collection di Lecce by Choice hotels.

Allora, come è nato tutto?
Dopo gli studi in ragioneria sono partito per Roma. Amavo il Codice, la Costituzione, così mi sono buttato negli studi in Legge. Poi la folgorazione a un passo dal traguardo.

Però non era totalmente digiuno di fornelli…
Fino ai diciotto anni non sapevo neanche se la pasta si cuocesse in acqua calda o fredda…

Cosa le dissero i suoi genitori al momento dell’addio agli studi?
Mio padre quando mi portò al treno, mi salutò con: tu vai a Roma per morire di fame perché non sai nemmeno prepararti un panino. Ogni volta che vado in trasmissione lo chiamo per dirgli: guarda la tv, così vedi cosa ho fatto. E mia madre mi racconta che ogni volta le lacrime sgorgano a fiumi. Perché, vede, loro puntavano al posto fisso, mio fratello è nella finanza e magari preferivano una strada certa.

Come è nata la sua passione per la cucina?
Come rivalsa nei confronti di me stesso: volevo dimostrare ai miei di essere in grado di gestirmi da solo. La prima settimana potevo farmi un panino. Ma poi no, sia a livello economico che salutare. Ecco quindi che ho acceso i fornelli.

Piatto cult di quel periodo?
Una volta ho comprato 50 astici e li ho piazzati nel congelatore. Ancora oggi non riesco a mangiarlo.

Quindi l’esperienza da Vissani…
Il maestro. Ancora oggi lo considero il numero uno: è innovativo di trent’anni avanti. Con lui ho passato circa due anni, prima di partire per Milano.

E lì come è andata?
Al Four Season per tre mesi ho solo tolto l’intestino ai gamberetti. Mi veniva da piangere. Nel giorno di riposo facevo cene nel gotha della città. E dopo sei mesi avevo l’autista personale. Come mi sono sentito? Il mio lavoro era quello di tornare a casa la sera e di stare con i piedi per terra.

Nelle sue ricette torna spesso alle radici della cucina calabra. Quali sono le materie imprescindibili?
L’olivo e l’origano della Palombara, l’anice selvatico della Sila e il riso di Sibari, un vanto, un fiore all’occhiello. E il maiale nero.

Da dove nascono le sue creazioni?
La mia cucina è molto studiata, sui libri. E tocca sia la gastronomia molecolare che la spagnola, francese e italiana. Come dice Vissani: le tecniche devono essere rigorosamente copiate, è la ricetta che va personalizzata.

Cucina anche in casa?
No! (sorride) Preferisco un panino con il prosciutto. Qualche volta organizzo delle sorprese a mia moglie. Ma anche lei cucina alla grande come mia suocera che mi ha ispirato tante volte. La carne salata di maiale me l’ha trasmessa lei, una ricetta che parte della notte dei tempi quando non c’era il frigorifero.

Quando ha capito di aver imboccato la strada giusta?
Quando ho scoperto che persone si facevano 100 km per mangiare da me. Poi è arrivata la televisione

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