“Reporter che cosa fai stasera?”. Ve la ricordate la pubblicità di qualche anno fa: una voce sensuale, una mano di donna che accarezza un torace muscoloso.

I reporter, i giornalisti spesso sono visti così. Avventurosi, tenebrosi. E anche noi troppo spesso ci culliamo in questa illusione. Siamo così abituati a osservare gli altri, che ci dimentichiamo di guardare più vicino. Di vedere noi stessi. Poi ecco che ti capitano dei momenti, diciamo così, di autocoscienza. All’improvviso ci dimentichiamo di toglierci le lenti con cui guardiamo il resto del mondo e ci troviamo davanti un’immagine che stentiamo a riconoscere. La nostra.

Mi è capitato il 9 settembre. Il giorno del mio quarantaduesimo compleanno, e forse non è un caso: tempo di bilanci, di grandi domande. Guardi l’orologio e, invece di vedere l’ora, conti gli anni.

Ero alla Festa del Pd dell’Aquila. E già capirete il mio stato d’animo, tra tutti i luoghi dove una persona vorrebbe passare il proprio compleanno la festa del Pd non è al primo posto. Diciamo che non è neanche nei primi mille. Viene da chiederti perché la chiamino ancora festa, sembra piuttosto una veglia funebre: grandi tendoni bianchi completamente vuoti, niente dibattiti, niente sedie, niente di niente. Bandiere che sventolano, che dovrebbero comunicare entusiasmo, ma ti danno soltanto malinconia. Quattro gatti che si aggirano senza meta per gli stand. Ma che cosa cerchiamo ancora alle Feste del Pd (dall’Aquila a Torino, non fa differenza)? Alla fine lo scopriamo, sentiamo un richiamo, un profumo, uno sfrigolare che risveglia memorie lontane: la cucina. Le famose salsicce. L’unico filo conduttore che resiste alle trasformazioni della sinistra italiana.

Altro che sondaggi, per capire come se la passa il suo partito Bersani potrebbe ricorrere alla salsiccia: una volta dovevi fare una coda di un’ora per sederti e mangiare, adesso niente attese. Meglio così, almeno per lo stomaco.

Allora eccomi anch’io seduto al tavolo. Solo. Niente candeline. Niente cori di parenti e amici. Mi guardo intorno cercando di darmi un contegno, perché mangiare da solo ti fa sempre sentire un po’ sfigato. Fingo di leggere i giornali, scrivo sul taccuino che non mi abbandona mai come la coperta di Linus. Ed ecco allora che cado nella trappola: lo sguardo in mezzo al deserto della festa non ha niente cui aggrapparsi. Disegna cerchi sempre più stretti, alla fine vedo la mia immagine riflessa in uno specchio. Ma ho ancora addosso le lenti del cronista e mi vedo come vedrei un’altra persona.

Oddio, ma che parole userei adesso per descrivere quel ragazzo… no, non sono più un ragazzo… quel signore rattrappito dal freddo seduto su una sedia di plastica? Chi sono diventato? Se davvero non mi conoscessi, se mi incontrassi adesso e mi intervistassi… che opinione mi farei?

Mi verrebbe voglia di alzarmi e darmela a gambe, ma sarebbe inutile: quel signore… il reporter… mi verrebbe dietro, da quando sono nato non riesco a liberarmi di lui.

Provo un misto di irritazione e di compassione. E’ dura applicare a se stessi lo stesso metro che si utilizza per gli altri. Meglio capovolgere allora la prospettiva: essere indulgenti con tutti. Mi prende una specie di dolce malinconia, di simpatia universale, perfino verso D’Alema che vedo ritratto in un’immagine sui manifesti.

Dalla cronaca scivolo nella filosofia. Ripenso alla parabola del figliol prodigo che mi è capitato di rileggere pochi giorni fa. Alla strana, inavvertibile trasformazione che gli anni portano con sé: all’inizio ci riconosciamo tutti nel figlio che resta, ci indigna l’ingiustizia del padre. Poi, all’improvviso, ti accorgi che sei passato dall’altra parte: sei il figliol prodigo, da lontano vedi comparire la casa che hai lasciato e speri che qualcuno ti accolga con indulgenza. Che pensando ai tuoi tanti errori, alle debolezze, decida di non applicare la giustizia.

Come un lampo penso ai miei amici, mi guardo intorno. Vedo le rovine dell’Aquila, una città di ombre. Un simbolo. E mi sembra di vederli tutti, gli amici: quelli che mi aspettano a Genova, gli altri sparsi per il mondo, alcuni che purtroppo per cercarli mi viene ormai da guardare verso l’alto… (chissà perché cerchiamo rifugio verso il cielo, il luogo più remoto e inaccessibile).

Poi, per fortuna, ripiombo a terra. L’altoparlante della festa mi richiama alla realtà. E per uno di quegli strani giochi delle sinapsi cerebrali mi torna in mente lo slogan della pubblicità: “Reporter che cosa fai stasera?”. Porcoggiuda, chi l’avrebbe detto, guarda come sono finito: festeggiare il mio compleanno alla festa del Pd. Da solo.

Allora mi guardo intorno: sopra di me vedo un grande cartello con il menu del giorno. Mi sovrasta, come una targa sulla mia testa: “Stasera castrato”. Il colpo di grazia.

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