“Alcuni rappresentanti della stampa, dotati del dono della sobrietà, hanno parlato di guerra aperta tra governo e potere giudiziario. Questa, secondo me, non è un’analisi precisa. Ma è vero che esiste un’inevitabile e, a mio parere, assolutamente giusta tensione tra i due. Esistono al mondo paesi in cui tutte le decisioni dei tribunali incontrano il favore del governo, ma non sono posti dove si desidererebbe vivere”.

L’aveva detto quattro anni fa, a Londra, durante una conferenza al Centre for Public Law, con la serietà e la convinzione dello studioso e del giurista, ma con l’ironia dell’uomo che, grazie al suo lavoro di giudice, ha passato la vita immerso nella realtà e nei problemi di tutti i giorni, cercando di individuare i modi per raggiungere le soluzioni più eque e ragionevoli.

Master of the Rolls, Lord Chief Justice e Senior Law Lord, Tom Bingham aveva ricoperto, nel tempo, tutte le cariche più importanti alle quali potesse aspirare un giudice inglese e si era ritirato dalla carriera proprio l’anno scorso.

Sabato 11 settembre se ne è andato, a 76 anni, dopo aver lottato contro un cancro ai polmoni.

Solo pochi mesi fa aveva pubblicato “The Rule of Law” (in italiano, noi diremmo “Il principio di legalità'” o  “Lo stato di diritto”), non un libro per i soli giuristi,  ma dedicato “a chiunque si interessi alla politica, alla società e a quanto sta accadendo nel mondo in cui viviamo”.

Pur ammettendo che un significato preciso per l’espressione “the rule of law” forse non esiste, Lord Bingham aveva cercato di darne una definizione “piuttosto ambiziosa”, spiegando che gli ingredienti, “le sottoregole”, da considerare sono almeno otto. 

Tra queste c’era, tuttavia, a suo parere, un elemento che rivestiva particolare importanza: “Il nocciolo del principio di legalità” aveva detto,  risiede nel fatto che “ministri e incaricati di pubblici uffici, a tutti i livelli, debbono esercitare i poteri loro conferiti in modo ragionevole, in buona fede, tenendo conto degli scopi per cui i poteri sono stati loro affidati e senza eccedere i limiti di tali poteri”.

“Questa sottoregola – spiegava Bingham – riflette le ben note basi del controllo giurisdizionale. E’ davvero fondamentale. Perché, sebbene i cittadini di una democrazia investano le istituzioni che li rappresentano del potere di scrivere leggi vincolanti per tutti, ed e’ compito dell’esecutivo, del governo in carica al momento, rendere effettive le leggi, normalmente nulla autorizza l’esecutivo ad agire se non in stretta osservanza di quelle leggi (dico ‘normalmente’ volendo tener conto del sopravvivere di un numero sempre più striminzito di prerogative che non ricadono sotto il controllo della giurisdizione). Il ruolo storico dei tribunali è stato ovviamente quello di mettere sotto esame gli eccessi del potere esecutivo, un ruolo sempre più ampio negli anni recenti, per la maggiore complessità dell’azione di governo e per la crescente propensione del pubblico a contestarne le decisioni”.

Sostenitore della necessità di una Costituzione scritta anche per la Gran Bretagna, che finora ne ha sempre fatto a meno, Lord Bingham notava che “in passato vigeva una convenzione per cui i ministri, anche se critici rispetto ad una sentenza, pur esercitando il loro diritto ad appellarsi contro di essa, o, come ultima risorsa, a legiferare in modo da rovesciarla retrospettivamente, evitavano di screditarla in pubblico”. E aggiungeva dispiaciuto che “a questa convenzione, negli ultimi tempi, ci si ispira sempre più raramente, ed è un peccato, perché, se i ministri conducono quelli che vengono percepiti come pubblici attacchi ai giudici, i giudici, provocati, possono essere indotti a esprimere critiche della stessa natura nei confronti dei ministri, e la rule of law, per come la vedo io, non si giova di una disputa pubblica tra due poteri dello stato”.

Che non se ne giovi per niente, noi, in Italia, lo testimoniamo un giorno sì e l’altro pure, com’e’ vero che possiamo ben rallegrarci del fatto di essere già muniti di una Costituzione scritta, anche perché qui non pare poi tanto ovvio che “il ruolo storico dei tribunali” sia “quello di mettere sotto esame gli eccessi del potere esecutivo”. E che non sia così scontato lo confermavano solo l’altro ieri le nostre agenzie di stampa con le cronache da Yaroslavl.

Ma la “rule of law” non era per il giurista Bingham solo la stella polare da seguire all’interno di una moderna democrazia. Era molto di più: “Viviamo – aveva detto – in un mondo e, in parte, in una società in cui vi sono grandi differenze, di razza, di nazionalità, di religione, di ricchezza, etc, etc. Non esiste una soluzione semplice, capace di trasformare tutte queste differenze in un’armonia universale, ma sono convinto che l’attenersi scrupolosamente al principio di legalità sia la miglior garanzia in cui possiamo riporre la nostra speranza di avere un buon governo a casa nostra e un modo di procedere ordinato e onesto a livello internazionale. Per questo a me pare che il rispetto della rule of law sia forse la cosa che si avvicina di più a una specie di religione laica dal valore universale”.

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