David Lynch ha prodotto un film di Herzog? Cavoli! Sarà un capolavoro! È il pensiero che, più o meno, molti cinefili avevano avuto sapendo che due geni di cotal fatta finalmente si erano incontrati. Finalmente, appunto. Perchè non potevano che congiungersi e amarsi. Sarà per quel non so che li unisce nelle loro diversamente lucide follie (o nella loro comune arrendevolezza alla vita)…ma prima o poi doveva accadere. Doveva scattare il magma dell’amore. E con che delizia! Dovevano, insieme, produrre un lavoro straordinario. Fare un figlio meraviglioso.

Poi, a Venezia un anno fa passò in concorso – come film a sorpresa – il loro parto. My son, my son, what have ye done? (uscito venerdì scorso nelle sale). Vedendolo, l’entusiasmo scema, la delusione è cocente e l’impressione è che i due – che vivono a Los Angeles – si siano visti qualche sera a cena e, tra un po’ di vino e una chiacchiera di reciproca ammirazione, abbiano scritto quello che gli passava per la testa. E dire che l’idea, sulla carta, era perfetta! Lynch produce a Herzog un film su un matricidio! Tutto torna. I meandri psichici del regista di Velluto Blu immersi nel fluido amniotico del naturalismo herzoghiano.

Invece no. Ok, il concetto è chiaro: il matricidio di Brad (Michael Shannon) non è solo verso la propria genitrice biologica (la lynchianissima madre di Laura Palmer, Grace Zabriskie) ma verso l’essere ancor più che l’esistere. Così il detective Hank (Willem Dafoe) ha un bel da fare a capire. Perché di fronte al nulla non ci sono sono strumenti di comprensione. Il senza fondo della vita lascia solo sgomenti. Non c’è senso, semplicemente. Il detective ancora non lo sa. E arriva sulla scena del crimine, in un quartiere residenziale di L. A., mentre l’assassino è ancora asserragliato in casa. Assieme al poliziotto accorrono la fidanzata di Brad (la sempre splendida Chloe Sevigny) e il regista dello spettacolo – l’Elettra di Sofocle – che l’assassino stava interpretando (il sempre mitico Udo Kier).

La possibile forza del film diventa la sua debolezza: raccontare il deserto che si nasconde dentro ognuno di noi. Raccontare la traversata nel nulla che può risultare stare al mondo se ci poniamo in una prospettiva metafisica o, in questo caso, non umana. Ma Brad è e resta il “nulla”. Ed è così distante, così svuotato, così privo di psiche e sensazioni da essere un alieno. Ma un film del genere, sia chiaro, può anche essere un capolavoro. A patti che si lavori di fino, per raccontarci la morte in vita di un ragazzo problematico. Se non si lavora di fino con regia, fotografia, montaggio, si fallisce.. E di fino, incredibilmente, nessuno ha giocato.

Non basta un’ambientazione scabrissima, la fotografia di esterni tanto luminosa che si contrappone al buio nella mente del protagonista… e soprattutto infastidiscono da morire i trucchetti “immaginifici” messi in campo: un fenicottero rosa qua, un nano là… tanti misteri che non si risolvono… Chi dei due, Werner o David, ha avuto queste pensate? In ogni caso, lo spettatore di fronte a queste trovate, a queste citazioni calligrafiche (i nani sono una passione “comune”: leggi alla voce Twin Peaks, e ‘Anche i nani hanno cominciato da piccoli’) può sentirsi legittimamente preso in giro. I due registi – riverenza infinita a entrambi e un “grazie di esistere” detto col cuore – danno davvero l’impressione di aver scherzato. Di aver lavorato con la mano sinistra, mentre con la destra sorseggiavano un rosso della Napa Valley. Il loro amore, scritto nell’ordine delle cose, non è maturato a sufficienza. Speriamo nel secondo appuntamento.

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