C’è una vecchia canzone di Renzo Arbore che suona così: “il padre dice al figlio/senti un po’/ solo un consiglio è quello che ti do/ tu nella vita comandi fino a quando/ hai stretto in mano il tuo telecomando”.
E’ difficile immaginare una rima più efficace per riassumere il rapporto tra la televisione ed il nostro Paese: l’Italia è il regno del tele-potere ed il telecomando ne rappresenta lo scettro.

E’ una riflessione, ormai, tristemente vera da decenni.

La storia di una delle vicende che ha, probabilmente, maggiormente segnato il corso degli eventi politici nel nostro Paese è iniziata quando Silvio Berlusconi si è, dapprima, affacciato sulla scena televisiva italiana, con le Reti del biscione, in qualità di contoterzista mentre i suoi mandanti espropriavano il Paese della televisione di Stato asservendone la governance a logiche partitiche e lo privavano di una disciplina idonea a garantire il pluralismo e la concorrenza nel settore radiotelevisivo ed è, poi, proseguita, quando il Cavaliere si è visto costretto a mettersi – anche politicamente – in proprio non esistendo più alcun mandante capace di offrirgli adeguate garanzie.

Sfortunatamente per la democrazia nel nostro Paese questa storia di tele-potere, non è ancora finita e, anzi, sembra destinata a durare ancora a lungo.

L’ultimo capitolo, in ordine di tempo, lo hanno scritto, in pieno periodo estivo, in tandem, il Presidente del Consiglio e Ministro ad interim per lo sviluppo economico, Silvio Berlusconi ed il sottosegretario allo Sviluppo economico con delega alle comunicazioni nonché Ministro per lo Sviluppo economico in pectore, Paolo Romani.

I due, infatti, il 23 agosto – o qualche giorno prima – hanno pensato bene, naturalmente nell’interesse del pluralismo della televisione nel nostro Paese, di autorizzare Mediaset ad occupare, con le proprie trasmissioni, uno dei 5 multiplex del digitale terrestre destinato ad essere messo all’asta ed ad essere impiegato per colmare il digital divide ovvero per diffondere servizi di connettività a banda larga nelle zone dove la stessa ancora non arriva.

Rete 4 HD, Italia 1 HD e Premium calcio 2 HD targati Mediaset al posto di tanta risorsa di connettività per tutti.

Ovviamente, c’è da aspettarsi, che, anche questa volta, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato non ravviserà alcun conflitto di interessi perché il Premier avrà, certamente, avuto cura di far firmare l’autorizzazione fantasma (n.d.r. il provvedimento è assolutamente introvabile sul sito del ministero dello sviluppo economico così come su quello dell’Autorità delle Garanzie per le comunicazioni che non ha, neppure, ritenuto di darne atto nella propria rassegna stampa) al Suo sottosegretario Paolo Romani in virtù della delega da esso stesso attribuitagli proprio alle comunicazioni.

Certo, in un Paese normale, non basterebbe una firma a fare la differenza tra la sussistenza di un macroscopico conflitto di interessi e la sua insussistenza soprattutto quando la firma in calce al provvedimento con il quale si regala a Mediaset uno straordinario vantaggio competitivo in relazione all’asta che verrà, viene apposta da un personaggio come Paolo Romani che – senza nulla voler togliere alle sue competenze – non può certo vantare un passato lontano dall’universo televisivo del Cavaliere.

Ma l’Italia, appunto, non è un Paese normale.

Avete dei dubbi? Provate a riflettere su un paio tra le tante circostanze responsabili dell’anomalia televisiva e democratica italiana.

L’azionariato della concessionaria di Stato del servizio pubblico radiotelevisivo è per il 99,56% del Ministero dell’Economia e, dunque riconducibile ad un Premier già Tycoon di un impero televisivo come quello Mediaset e, per il restante 0,44% della SIAE, Ente pubblico economico operante sotto la vigilanza del Ministero dei beni e delle attività culturali e, dunque, ancora una volta facente capo al medesimo Governo.

La RAI opera in forza di un contratto di servizio pubblico sottoscritto con il Ministero dello Sviluppo economico e, dunque, con un soggetto riconducibile alla stessa stanza dei bottoni di Palazzo Chigi occupata anche dal suo azionariato: un po’ come se il Governo concedesse a sé stesso la gestione del servizio pubblico radiotelevisivo.

Vi sembra possibile ipotizzare che il Ministero dello Sviluppo economico contesti alla RAI – sua concessionaria – l’inadempimento al contratto di servizio pubblico?
Decisamente no e, infatti, non è mai avvenuto.

Così come davvero poche e di scarso rilievo sono state le occasioni nelle quali l’Autorità per le Garanzie nelle comunicazioni ha richiamato la RAI al rispetto dei suoi obblighi di servizio pubblico.

Come sorprendersi, considerato che l’AGCOM è uno di quelle Autorità che Giuliano Amato chiamava semi-indipendenti in quanto i suoi membri sono nominati dal Parlamento ed il suo Presidente dal Presidente del Consiglio dei Ministri?

Egualmente non può dimenticarsi che, attualmente, la RAI trasmette la sua programmazione sulla piattaforma digitale terrestre e su quella satellitare attraverso i servizi erogatile – a pagamento – da TIVU’, società di nuova costituzione il cui 48% è detenuto dalla stessa RAI mentre il rimanente 48% è detenuto dalla R.T.I. del Presidente del Consiglio e l’ulteriore 4% dalla Telecom Italia.

E’ davvero credibile che in un Paese drammaticamente affetto da un problema di mancanza di pluralismo nel settore radiotelevisivo, nel 2008, non esistesse un’alternativa rispetto all’idea di far passare la programmazione del servizio pubblico radiotelevisivo attraverso l’infrastruttura ed i servizi di una società controllata al 96% – in parte in termini economici ed in altre parte in termini politici – dallo stesso Signore del Tele-comando?

Sfortunatamente gli eventi degli ultimi anni raccontano che il “sacco” della televisione e della democrazia a spese del Paese ed a vantaggio, esclusivo, dei soliti noti non è ancora finito.
Come si fa, d’altra parte, a non mettere in correlazione questi drammatici episodi anti-democratici con il clamoroso ritardo con il quale il nostro Paese sta affrontando il problema del divario digitale e della diffusione delle risorse di connettività e, quindi, di Internet?
Internet è uno strumento, per sua natura, pluralista ed in grado, nel medio periodo, di abbattere il monopolio radiotelevisivo di RAISET ma, sfortunatamente il suo sviluppo nel nostro Paese dipende dagli stessi Signori del Tele-comando che non hanno alcuna intenzione né interesse ad investire seriamente in questa direzione, correndo il rischio di offrire ai cittadini un media più democratico e pluralista e di veder così sgretolare il loro impero e con esso la loro capacità di influenza sulle masse.

Un’altra storia nella storia per riflettere.
Il 3 novembre 2009, il sottosegretario Romani prende carta e penna e, non potendo partecipare allo IAB Forum, scrive agli organizzatori dicendo che, a giorni, il CIPE avrebbe dato il via libera all’utilizzo di 800 milioni di euro per lo sviluppo della banda larga in Italia. Una buona notizia, forse anche troppo buona. E, infatti, il giorno dopo, il sottosegretario alla Presidenza del consiglio Gianni Letta, sconfessa Romani e dice a chiare lettere che il Governo non intende investire quei soldi sino a quando il Paese non sarà uscito dalla crisi. Ancora qualche ora e si scopre che – contrariamente a quanto riferito da Romani – gli 800 milioni in questione non sono mai stati accantonati e nessuno a mai chiesto al CIPE il via libera a spenderli per risorse di connettività. Ognuno tragga le proprie conclusioni.

La mia è che, sfortunatamente, viviamo in un Paese ancora governato a mezzo TELE-COMANDO, nel quale la TV è sempre di pochi, per pochi e dei soliti noti e, soprattutto, nel quale il Palazzo ha ormai capito che Internet rischia di spegnere il giocattolo televisivo e liberare i cittadini dalla condizione di tele-dipendenza nella quale siamo stati ridotti.

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