di Corrado De Rosa*

Il carattere dei capi di camorra spesso si sviluppa lungo due direttive principali: la prima prevede grandiosità, arroganza, impulsività carisma, e modalità ostentate e gaudenti, intemperanti: Valentino Gionta e Mario Savio ne sono esempi; nella seconda, invece, sono rintracciabili anaffettività, freddezza, insensibilità, incapacità di rispettare le leggi morali e i sentimenti altrui, modalità dimesse, ritirate, schive, ciniche, silenziose: Paolo Di Lauro, Carmine Alfieri, Ferdinando Cesarano. Questi sono solo alcuni esempi di come cronache, affiliati, giudici descrivono la personalità dei boss, le cui vicende personali si intrecciano a quelle dei clan.

I capi devono garantire un’elevata complessità organizzativa del sistema che comandano: questo richiede capacità di programmazione e di definizione di priorità ed obiettivi; la loro leadership si conquista e si definisce attraverso metodi più o meno violenti che portano al controllo del territorio. Devono costruire o mantenere un sistema in cui la popolazione (affiliata e non) riconosca solidità, efficienza, prestigio criminale ed affidabilità.

Ma gli elementi utili al consolidamento del loro ruolo sono altri: i boss presentano un certo fascino superficiale e una disinvoltura nell’eloquio, usano il linguaggio senza sforzo per confondere e convincere. Sono sicuri di sé, persuasivi e in grado di mettere in una posizione di debolezza i loro avversari, o disarmarli emotivamente, spesso non riconoscono i diritti degli altri, il che rende ammissibili comportamenti egoistici attraverso la manipolazione basata sul fascino (apparente disponibilità, modalità accattivanti, suadenti, ma velatamente ostili). La storia criminale racconta leader con modalità megalomaniche, che avanzano sempre e comunque diritti, a cui tutto è dovuto.

I capi degradano i propri sottoposti ad oggetti, non stabiliscono relazioni tra pari dove possano circolare contenuti e affettività, ma solo dominio e sopraffazione. L’organizzazione di personalità è caratterizzata da diffidenza e sospetto. Queste spingono a interpretare le motivazioni degli altri sempre come malevole. Questa modalità di pensiero identifica un aspetto cognitivo: la sospettosità, uno di temperamento: l’irascibilità, ed uno difensivo: la distanza dagli altri per proteggersi, ma non rappresenta però necessariamente un modello delirante. I capi sono spesso interpretativi e persecutori, ma la loro persecutorietà è comprensibile all’interno dei loro stati emotivi, del background socio-culturale e delle loro vicende di vita. Appaiono aderenti alle circostanze che si sono presentate nel corso della vita: è comprensibile che temano di essere attentati (questo non significa necessariamente che soffrano di un delirio di persecuzione), o che temano di essere avvelenati in carcere (che non significa per forza che si tratti di delirio di veneficio).

Altra caratteristica che li accomuna è quella di considerare chi li circonda come oggetti, obiettivi da conquistare o opportunità da sfruttare, con uno spazio minimo per rimorso, vergogna o colpa. E’ raro che provino senso di colpa per le loro azioni. Può accadere che rivelino le proprie emozioni, ma più spesso esibiscono reazioni calcolate, per ottenere risultati. Sono pronti ad approfittare degli altri. Per quanto intelligenti, perspicaci e abili nel valutare le persone, usano le loro abilità per sfruttare, abusare, ed esercitare potere. La tendenza ad assumersi le responsabilità delle proprie azioni e la loro empatia, cioè la predisposizione emotiva a comprendere gli altri e la sofferenza che i loro comportamenti possono arrecare, sono ridotte se non assenti. La menzogna è uno strumento indispensabile: acquista nel contesto culturale degli affiliati un valore relazionale a cui si viene formati fin da piccoli, ha la funzione di sostituire la realtà con una personale visione, diventa una sorta di regola nelle relazioni.

Gli elementi decritti non sono esimenti o attenuanti in sede processuale, né attenuanti morali ai comportamenti criminali. Una lettura esasperatamente “psicologica” della criminalità potrebbe spostare l’accento dalle cause esterne, oggettive, su quelle (presunte) interne del’autore di reato spingendo il discorso verso una più o meno volontaria interpretazione dei comportamenti (anche quelli devianti) come prodotto di una “volontà inconsapevole”.

Il rischio è veicolare giustificazioni per i comportamenti criminali, legati a presunte o reali malattie che spiegherebbero i crimini stessi, e che in sede processuale potrebbero condurre a una riduzione dell’imputabilità e quindi delle pene.

* Psichiatra forense, esperto del Tribunale di Sorveglianza di Salerno

Articolo Precedente

Dal Lago senza Saviano

next
Articolo Successivo

La paura del camorrista

next