Il libro “Io non lavoro” ha fatto l’esaurito e ora è in ristampa. Segno dei tempi. Al di là della qualità del libro, che non posso giudicare avendolo scritto, il tema suscita grandi passioni, discussioni, riflessioni su se stessi. Magari anche grandi incazzature. In ogni caso non lascia indifferenti e si rivolge al lettore per chiedergli: e tu?

Tu che hai un buon lavoro, ti senti una persona libera, indipendente dal giudizio degli altri, segui una strada scelta autonomamente, riesci a realizzare le tue ambizioni? Oppure, cosa te lo impedisce?

Tu che sei un workalcholic, non hai dimenticato qualcosa nella tua vita ricca di impegni, l’agenda sempre piena di appuntamenti?

Tu che sei un lavoratore scontento di quel che fai, riesci a far sì che questo lavoro, che non puoi proprio abbandonare, non distrugga i tuoi sogni, la tua vita?

Ieri eravamo a Torino, invitati a presentare “Io non lavoro” alla festa del Partito democratico.

La giornata, in realtà, è finita sui giornali per la contestazione a Schifani (è una notizia così sconcertante? Sempre ieri a Dublino Blair è andato a presentare il suo libro, ora in libreria, e l’hanno bersagliato con uova e scarpe. Sono rischi del mestiere. La differenza è che lì hanno arrestato due persone, ma non è intervenuta la regina, e non si sono usati paroloni a sproposito. Gli italiani amano le parole, gli inglesi i fatti). 

Tornando al libro: perché dare spazio alle storie di persone che hanno scelto di non lavorare, quando gli italiani e in particolare i giovani vivono uno dei periodi più neri dagli anni ‘70? Noi non giudichiamo o forniamo ricette politiche: è solo un romanzo collettivo che racconta una fetta sconosciuta del nostro paese. 

Durante il dibattito abbiamo capito che la grande attenzione che stiamo ottenendo, deriva da una consapevolezza molto diffusa: spesso lavorare non significa più contribuire alla ricchezza della nazione, ma solo perseguire l’arricchimento personale. Oppure avere un lavoro significa semplicemente avere uno strumento che permetta di sopravvivere. 

In entrambi i casi, l’etica del lavoro del mondo dei nostri padri traballa pericolosamente.

Da un punto di vista esistenziale, poi, sia il troppo lavoro sia la mancanza forzata di esso fan sì che il proprio tempo ruoti solo intorno al lavoro. Avevo un amico che contava sempre i soldi a fine giornata. Più parlava di soldi, meno ne aveva. Come trovarne, cosa vendere, cosa non comprare, a cosa rinunciare. La mancanza di qualcosa rende centrale quel che non hai. Le storie di chi non lavora ci mostrano un luogo, chiaramente utopico, ma non necessariamente paradisiaco, in cui scompaiono i conflitti, finiscono i problemi, il denaro non esercita più il suo potere maligno, la competizione non rovina i rapporti umani, la frontiera tra vita privata e vita pubblica viene a cadere…Liberandosi dall’ossessione del lavoro, si può cominciare a parlare di felicità. Lavorando o no.