L’On. Stracquadaino (PDL) rivela a Telebavaglio che ci sarebbero, chiuse in qualche cassetto, 75 mila pagine di intercettazioni capaci, probabilmente, di scatenare un altro terremoto politico-istituzionale.

75 mila pagine di cui alcuni – tra i quali proprio l’On. Stracquadaino – conoscono, evidentemente, l’esistenza, altri il contenuto ed i più sono completamente all’oscuro.

Il Presidente della Camera dei Deputati, da mesi, è messo nell’angolo – che si tratti o meno di un tema politico come dice Lucia Annunziata – da piccoli segreti di pulcinella legati a case, donne e cucine. spifferati, a mò di stillicidio, ad orologeria, al solo scopo di minare – qui poco conta se a torto o a ragione – la credibilità e l’immagine pubblica della terza più alta carica dello Stato.

Per mesi, se non per anni, un aspirante paparazzo – senza voler offendere quelli veri della scuola di Rino Barillari – come Fabrizio Corona, cresciuto alla corte di un manager – senza voler offendere neppure i capitani d’industria italiani – di aspiranti VIP come Lele Mora, ha tenuto in scacco politici ed imprenditori con foto compromettenti – o ritenute tali – scattate in pubblico, quasi in pubblico o in privato.

Un ministro della Repubblica, politico di lungo corso, come Claudio Scajola si è costretto – l’uso del riflessivo è l’unico che renda giustizia dinanzi ad una tanto clamorosa ingenuità – alle dimissioni per colpa di una storia da “banda del buco”, fatta per atto pubblico, davanti ad un Notaio.

La protezione civile che dovrebbe difendere il Paese dalle conseguenze di cicloni e terremoti è stata travolta da una scandalosa bufera di informazioni, anche in questo caso pubbliche o semi-pubbliche, che ha raso al suolo l’immagine e la credibilità di Guido Bertolaso.

A sfogliare a ritroso la storia d’Italia, l’elenco di episodi nei quali il possesso da parte di pochi di informazioni “politicamente o economicamente sensibili” – ma non segrete -poi improvvisamente divenute di dominio pubblico, potrebbe proseguire per pagine e pagine, andandosi a sovrapporre – in modo quasi scientifico – ai capitoli più bui della storia del Paese.

La sensazione – ma si tratta probabilmente di qualcosa di più che una semplice intuizione sensoriale – è che la nostra democrazia sia, da sempre, tenuta sotto schiaffo da registi – occulti e meno occulti – che traggono la loro forza dal possesso di informazioni sensibili – perché rilevanti – ma non segrete né riservate, informazioni, solo nascoste, sepolte, dimenticate per scelta di pochi e non nell’interesse del Paese.

I media semi-dipendenti e dipendenti – sotto il controllo politico o economico – sono, da sempre, il braccio armato di questi registi, i più naturali e, ad un tempo, più efficaci megafoni per la pubblicazione TELE-comandata di queste informazioni sensibili.

E’, d’altra parte, una preoccupazione che viene da lontano e della quale – appunto ad aver la pazienza di spolverare negli archivi della Camera dei Deputati – si ritrovano tracce evidenti negli stessi lavori dell’assemblea costituente che, lavorando al testo della legge sulla stampa, si interrogò insistentemente, pur senza trovare una soluzione, su quale fosse il rimedio per quello che già allora veniva individuato come il vero problema da affrontare e risolvere: troppo spesso l’editore di giornali non è a caccia di profitto ma di potere ed influenza politica ed economica attraverso la forza dell’informazione.

Segreto di Stato, disciplina sull’accesso ai procedimenti amministrativi, legge sulla privacy e inaccessibilità de facto dei documenti pubblici hanno, spesso, rappresentato gli alfieri della dottrina del Palazzo Segreto attraverso il quale si è sin qui inteso governare il Paese.

E’ accaduto, l’ultima volta, nei mesi scorsi, quando proprio in nome di una sbandierata – ma inesistente – esigenza di tutelare la privacy dei cittadini da un esercito di presunti magistrati ficcanaso e voyeur si è cercato, con ogni mezzo, di scrivere una delle pagine più buie della nostra storia, facendo approvare il DDL intercettazioni.

Sul punto è, tuttavia, bene essere chiari: privacy, segreto di Stato e disciplina sull’accesso ai procedimenti amministrativi non sono ontologicamente nemici della democrazia e dovrebbero, al contrario, essere suoi preziosi ed irrinunciabili alleati.

Il problema è, piuttosto, come tali strumenti ed istituti vengono utilizzati e piegati alle esigenze di Governo o, per dirla in altri termini, il problema sta nella selezione delle ipotesi nelle quali il diritto di tutti a sapere – e si tratta di un’altra grande preoccupazione, purtroppo irrisolta, dei padri costituenti allorquando posero mano alla disciplina sulla stampa – deve prevalere sul diritto del singolo a che venga mantenuto il segreto su un’informazione che pur riguardando il Paese, riguarda, più da vicino e più direttamente la propria sfera privata.

Sin qui – con formula sintetica e, quindi, giuridicamente imprecisa – potrebbe dirsi che l’approccio è stato quello di ritenere segreta – di fatto o di diritto – la più parte delle informazioni, salvo una percentuale modesta che, quasi a mo’ di concessione, è stata resa pubblica.

La storia – moderna e meno moderna – insegna, tuttavia, che questa ricetta non funziona e, quindi, se davvero si vuole rilanciare il sogno democratico occorre cambiare le regole ed invertire l’approccio: tutto deve essere pubblico tranne ciò in relazione al quale sussistano effettive esigenze di segreto, privacy o riservatezza.

E’ l’idea dell’Open Government – il governo aperto – uno dei cavalli di battaglia della rivoluzione di Mr. Obama negli Stati Uniti.

Tutte le informazioni prodotte con risorse pubbliche, da enti pubblici e nella disponibilità della pubblica amministrazione devono – salvo la sussistenza di specifiche esigenze di segno contrario – essere rese accessibili ai cittadini, senza alcun onere, online ed in tempo reale o, almeno, nel più breve intervallo di tempo possibile, compatibilmente con l’attività necessaria a garantirne la libera accessibilità.

Ben altro rispetto all’ipocrita “operazione trasparenza” del Ministro Brunetta.

Se le informazioni divengono di tutti, nessuno potrà più utilizzarle per tenere sotto schiaffo la democrazia e la loro pubblicità costituirà, d’altro canto, un pre-requisito per chiunque voglia candidarsi alla guida del Paese o, più semplicemente, alla gestione della res publica: dovrà farlo sapendo che le informazioni rilevanti per tutti i cittadini saranno davvero alla portata di tutti.

I tempi cambiano, le tecnologie modificano inesorabilmente il contesto sociale e le regole del gioco.

Nella società dell’informazione, nell’era dell’accesso come la chiama Jeremy Rifkin, nell’era digitale teorizzata da Negroponte, nell’epoca della Rete e del cyber spazio globale, nessun segreto è per sempre.

Lo insegna – qualora ce ne fosse bisogno – la recente vicenda della pubblicazione di oltre 70 mila documenti riservati dell’amministrazione americana attraverso gli archivi di Wikileaks, un giornale murario moderno, che costa poche centinaia di migliaia di euro l’anno ed è gestito da un pugno di persone.

Davvero si può pensare che in un contesto di questo genere sia possibile impedire ai poteri forti di disporre di ogni genere di informazione e pubblicarla ad orologeria, asservendola ai propri interessi di parte?

Se lo ha fatto Wikileaks per nobili ragioni, domani potrà farlo chiunque altro, per ragioni meno nobili.

Anche in questo caso, una pagina della storia recente, intitolata Caso Telecom, è li a fugare ogni dubbio.

Le nuove guerre, su fronti nazionali ed internazionali si combatteranno a suon di informazioni e le dichiarazioni di guerra si faranno minacciandone la pubblicazione.

C’è una sola via per spuntare le armi del nuovo millennio: ridurre al minimo indispensabile il possesso – da parte di chicchessia – di informazioni riservate, di tutti ma non per tutti.

Tra l’altro l’Open Gov – ed è, anzi, proprio questo il cuore dell’idea che ha ben spiegato in questo articolo [http://www.apogeonline.com/webzine/2010/08/23/open-government-non-perdiamo-altro-tempo] Ernesto Belisario – produce infiniti benefici in termini di buona amministrazione: condividendo le proprie informazioni con i cittadini il Palazzo – a condizione, naturalmente, di volerlo – ha la possibilità di comprendere più da vicino le esigenze ed i bisogni di questi ultimi che, a loro volta, possono più attivamente partecipare nella gestione della cosa pubblica.

In un Paese, peraltro, nel quale i cittadini hanno ormai perso fiducia nello Stato e nei partiti proprio a causa dell’opacità dietro alla quale si nascondono gli amministratori pubblici, l’open government – come scrive Nicola Mattina nella sua lettera aperta al Partito democratico [http://blog.nicolamattina.it/2010/08/lettera-aperta-al-partito-democratico/] – potrebbe aiutare a ricostruire il rapporto tra Stato e cittadini, amministratori ed amministrati.

Il Governo aperto, contro il Palazzo segreto e l’accesso alle informazioni come strumento di democrazia anziché la loro segretezza come minaccia democratica.

Le rivoluzioni, nel XXI secolo, possono farsi anche utilizzando la tecnologia in maniera intelligente ed illuminata.

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