di Salvatore Cenigliaro
Tutti conoscono la storia di Libero Grassi e la sua tragica fine (oggi ricorre il 19° anniversario), ma di imprenditori uccisi a Palermo dalla mafia c’è ne sono stati altri.

Ne voglio qui ricordare due. Anno 1985: poco prima che la mafia decidesse l’attacco alla Polizia di Stato con gli omicidi di Beppe Montana, Ninni Cassarà e Roberto Antiochia, vennero assassinati due imprenditori. Il 27 febbraio: Pietro Patti, quattordici giorni dopo, il 13 marzo: Giovanni Carbone.

Erano quelli gli anni in cui Falcone e Borsellino e gli altri magistrati del pool antimafia dovevano “quartiarsi”, prima che dalla mafia, dalle talpe all’interno del palazzo dei veleni.

Erano gli anni in cui a Palermo e dintorni i morti ammazzati non si contavano e chi cadeva sotto i colpi della mafia veniva rimosso in breve dalla memoria collettiva, soprattutto quando questi erano semplici cittadini.

Poi arrivarono le stragi del ’92 e del ’93. L’attacco di Cosa Nostra allo Stato. E molte cose cambiarono.

Da una parte lo Stato, che soprattutto con le Forze dell’Ordine e la Magistratura, trovò risultati impensabili fino a poco tempo prima, su tutti l’arresto di Totò Riina. Dall’altra un momento di straordinaria partecipazione, quella che venne battezzata la “primavera palermitana”.

Cosa Nostra decise allora d’inabissarsi, di rendersi trasparente agli occhi dell’opinione pubblica. Venne così il tempo del “pagare meno pagare tutti”. Una strategia che proseguirà fino ai nostri giorni. Una linea d’azione che porterà i suoi vantaggi a Cosa Nostra. Nel sentire collettivo la questione “mafia” perderà via via il suo peso, spegnendo ben presto l’onda emotiva scaturita dalle stragi di Capaci e di Via D’Amelio. Per anni si parlerà di mafia quasi sempre al passato, delle verità che emergeranno dalla collaborazione dei “pentiti” sulle stragi e sui fatti di mafia precedenti a quelle stragi, insomma di cose già accadute.

Del perpetrarsi delle infiltrazioni mafiose, del controllo degli appalti pubblici, del pizzo, piuttosto che dei rapporti mafia e politica, se ne discuterà soltanto su fatti specifici, quando questi fatti saranno messi in luce dalle indagini giudiziarie. Il sistema di potere mafioso, in qualche modo, resterà intatto. Per il resto sarà silenzio se non, in alcuni casi, addirittura mistificazione della realtà.

L’allarme sociale sul fenomeno delle estorsioni, in quel lungo periodo, fu quasi inesistente, ed ancora nei primi anni di questo nuovo secolo, il racket veniva considerato da tanti un problema marginale e comunque una questione per gli addetti ai lavori. Basti ricordare, per citare uno dei casi più eclatanti, che ancora nel 2005, una figura istituzionale, come quella del Presidente della Regione Salvatore Cuffaro, così minimizzava: “Quelli che pagano il pizzo saranno il 5-10 per cento. I magistrati dicono cose diverse? E io non ci credo”. Chi avesse ragione lo hanno dimostrato i libri mastri, i “pizzini”, gli arresti ancora eccellenti dei mesi e degli anni a seguire, da Provenzano a Lo Piccolo, le analisi e gli studi svolti in questi anni univoci nel rappresentare un quadro ben diverso.

Importantissimo, pertanto, in tutta quella fase, il ruolo svolto dalle associazioni antiracket, quasi sempre in aperto contrasto con le associazioni di categoria. Senza la loro presenza e il loro impegno molto probabilmente non sarebbe mai stata approvata una legge antiracket (L. 44/99), i commercianti e gli imprenditori che si ribellavano al pizzo non avrebbero potuto contare su di una rete di protezione che consentiva di tutelarli, e, ne sono certo, ben difficilmente avrebbe potuto realizzarsi la nuova stagione che nel duemilacinque prenderà slancio con la nascita a Palermo del Comitato Addiopizzo. Ma, sarebbe sbagliato non ricordare, insieme alle associazioni antiracket, l’importantissimo lavoro di educazione alla legalità realizzato a partire dagli anni novanta soprattutto nelle scuole grazie al costante impegno, oltre che dei docenti e delle associazioni antimafia, degli stessi magistrati e dei rappresentanti delle Forze dell’Ordine.

È quantomeno ingeneroso, nei confronti di tutti coloro che hanno costruito questo difficile e faticoso percorso di promozione della cultura della legalità, far passare il messaggio che quel che si è verificato in questi ultimi anni nasca dal nulla e non sia piuttosto anche il frutto del loro impegno. Tanto l’esperienza palermitana dei ragazzi del Comitato Addiopizzo quanto la recente svolta delle associazioni di categoria siciliane non possono non trovare fondamento nel lavoro svolto dalle associazioni antiracket e dal variegato mondo dell’impegno antimafia.

Ma, tutto ciò non sarebbe bastato ancora ad aprire questa nuova stagione. Un contributo determinante è arrivato dalla straordinaria azione repressiva delle Forze dell’Ordine e della Magistratura che ha portato alla sbarra, in pochi anni, centinaia di estortori e mafiosi e, ancora oggi, continua senza soluzione di continuità.

All’inizio è stato “San Libro Mastro” che ha aiutato gli investigatori a comprendere la reale portata del fenomeno, più di recente sono stati i nuovi collaboratori di giustizia a fornire dati e notizie circostanziate su chi, quando e quanto i commercianti e gli imprenditori pagano alla famiglia mafiosa di turno. Tutto ciò ha creato le condizioni perché cominciassero ad aprirsi squarci nel muro di omertà che in passato aveva ingabbiato quegli stessi commercianti e imprenditori che oggi invece cominciano a denunciare. Ciononostante, la strada è ancora lunga perché la ribellione contro il pizzo resta ancora del tutto marginale e sporadica. Ma il mutato contesto è un’opportunità che Palermo non può non sfruttare, non soltanto contro il racket delle estorsioni, e per questo serve un salto di qualità dell’azione antiracket.

Il sacrificio di Libero Grassi, Pietro Patti e Giovanni Carbone potrebbe non essere stato vano.

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