La notizia è ormai nota. Il Governo, con il decreto legge 25 marzo 2010, poi convertito in legge, ha fatto alla famiglia Berlusconi ancora un regalo milionario, consentendo a Mediaset di risparmiare tra i 170 e i 350 milioni di euro nei confronti dell’Erario.

Opposizione e giornali, scoperto il misfatto sono, ovviamente, tornati a gridare, ancora una volta, al conflitto di interessi.

La Cassazione, dal canto suo, ha chiesto alla Corte di Giustizia di verificare se la norma italiana sia compatibile con l’Ordinamento europeo.

Tutto giusto e sacrosanto.

C’è però un altro aspetto che non deve passare inosservato.

Solo qualche giorno fa l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, nel trasmettere al Parlamento la propria Relazione circa lo “stato delle attività di controllo e vigilanza in materia di conflitto di interessi” tra il 1° gennaio ed il 30 giugno 2010, ha dato atto di non aver ravvisato, in tale periodo, alcun episodio di conflitto di interessi.

Il decreto legge incentivi è stato firmato, a Palazzo Chigi il 25 marzo 2010 e, dunque, nel bel mezzo del periodo cui si riferisce la relazione del Presidente dell’Autorità Garante, Antonio Catricalà.

Nelle venti pagine della relazione, tuttavia, non c’è neppure un cenno alla questione del decreto legge incentivi, anche solo per dar conto di aver avuto qualche sospetto, verificato la legittimità dell’accaduto e poi archiviato.

Due sole, infatti, le ipotesi di conflitto prese in considerazione dall’Autorità ed entrambe di ben minor rilievo: le pretese pressioni fatte dal Premier Berlusconi perché Fiorello non firmasse il contratto con Sky e gli investimenti pubblicitari che la Presidenza del Consiglio ha destinato, in maniera pressoché esclusiva, alle reti Mediaset in barba alla Legge.

In entrambe tali ipotesi, peraltro, l’Autorità Garante non ha ravvisato alcun conflitto di interessi, complice – lo scrive il Presidente Catricalà nella relazione – una legge che impone, perché il conflitto possa essere ritenuto rilevante, che esso si traduca in un “atto” adottato o, almeno proposto dal titolare dell’incarico di Governo, a vantaggio di un’impresa propria o di un proprio familiare.

Nei due casi esaminati dall’Autorità, secondo il Presidente Catricalà, mancherebbe, appunto, l’atto alla cui adozione il Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi avrebbe partecipato.

Come dire che gli inciuci o si fanno su carta da bollo o non sono tali!

Strano ma vero. Questo dice la legge e dura lex sed lex, come dicevano i latini e, quindi, sin tanto che la legge non cambia, bisogna rassegnarsi.

Nel caso del decreto legge incentivi, tuttavia, la questione è diversa.

C’è un decreto legge, appunto, alla cui adozione il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha partecipato in prima persona, c’è un disegno di legge di conversione il n. 3350 del 2010, firmato, tra gli altri, proprio del Presidente Silvio Berlusconi, c’è, dunque, un atto che – e questo mi sembra fuori di dubbio – produce un vantaggio rilevante per un’impresa di Casa Berlusconi con un conseguente evidente pregiudizio per l’interesse pubblico, giacché l’Erario, per effetto dell’adozione dell’atto, incasserà qualche centinaio di milioni di euro in meno.

Almeno in astratto, quindi, gli elementi per ipotizzare un conflitto di interessi, persino sulla base della nostra ipocrita legge anti-conflitto, ci sono davvero tutti.

Perché l’Autorità Garante della concorrenza e del mercato non ha neppure avviato un’istruttoria? Possibile che gli uffici del Presidente Catricalà non si siano avveduti di un tanto “mostruoso” potenziale conflitto e/o non abbiano ravvisato almeno l’esigenza di avviare un’istruttoria?

Val la pena di ricordare che il comma 3 dell’art. 6 della Legge sul conflitto di interessi stabilisce che “Al fine di accertare la sussistenza di situazioni di conflitto di interessi ai sensi dell’articolo 3, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato esamina, controlla e verifica gli effetti dell’azione del titolare di cariche di governo con riguardo alla eventuale incidenza specifica e preferenziale sul patrimonio del titolare di cariche di governo, del coniuge o dei parenti entro il secondo grado, ovvero delle imprese o società da essi controllate… con danno per l’interesse pubblico…”.

Nessun dubbio, quindi, che sia proprio compito dell’Autorità Garante anche dare un’occhiata tra le pieghe degli atti adottati con la partecipazione del Presidente del Consiglio per vigilare che non si verifichino ipotesi quale quella che sembra essersi verificata con il decreto legge incentivi.

Per adempiere a questa funzione di straordinario rilievo in qualsiasi Paese e, a maggior ragione, nel nostro, l’Autorità, d’altro canto, dispone di uomini, mezzi, risorse e, naturalmente, di un budget che, inutile dirlo, noi paghiamo, ogni anno, a suon di tasse e balzelli.

In Piazza Verdi, sede dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, probabilmente, domani diranno che la mossa di Palazzo Chigi è stata tanto astuta da esser sfuggita al loro controllo.

Possibile.

E’ l’arbitro, tuttavia, a dover essere più bravo del giocatore ad avvedersi del fallo con la conseguenza che la furbizia di quest’ultimo non può rappresentare una valida giustificazione per l’errore arbitrale.

Guai, però, a non saper perdonare e gli italiani – purtroppo o per fortuna sarà il tempo a dirlo – hanno imparato a farlo molto bene.

La legge sul conflitto d’interessi non prevede un termine di decadenza per l’avvio dell’istruttoria e l’adozione dei provvedimenti conseguenti e, quindi, se Catricalà ed i suoi uomini, al primo giro, sono stati distratti e non si sono accorti di quello che è accaduto a Palazzo Chigi lo scorso 25 marzo, ora, letti i giornali, hanno la possibilità di rifarsi.

La legge “anti-conflitto”, infatti, – forse a causa della convinzione del legislatore che mai nessuno avrebbe avuto il coraggio e/o una sufficiente dose di indipendenza da accertare un’ipotesi di conflitto di interessi – è chiarissima nello stabilire cosa l’Autorità debba fare.

Il comma 8 dell’art. 6 prevede, infatti, che “Quando l’impresa facente capo al titolare di cariche di governo, al coniuge o ai parenti entro il secondo grado, ovvero le imprese o società da essi controllate… pongono in essere comportamenti diretti a trarre vantaggio da atti adottati in conflitto di interessi … e vi e’ prova che chi ha agito conosceva tale situazione di conflitto, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato diffida l’impresa ad astenersi da qualsiasi comportamento diretto ad avvalersi dell’atto medesimo ovvero a porre in essere azioni idonee a far cessare la violazione o, se possibile, misure correttive. In caso di inottemperanza entro il termine assegnato, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato infligge all’impresa una sanzione pecuniaria correlata alla gravità del comportamento e commisurata nel massimo al vantaggio patrimoniale effettivamente conseguito dall’impresa stessa.”.

All’Autorità Garante non resta, pertanto, che avviare un’istruttoria e ove accerti che, almeno in questo caso, il conflitto d’interessi esiste, diffidare la Sig.ra Marina Berlusconi dal trarre qualsivoglia vantaggio dal provvedimento firmato da Papà Silvio, consentendo alla sua Mediaset di risparmiare centinaia di milioni di euro.

Nessun dubbio, d’altra parte, che Papy Silvio non ci resterà male perché nessuno di noi dubita della circostanza che lui, l’atto in questione, l’abbia fortemente voluto nell’interesse del Paese e degli altri imprenditori italiani in analoghe e non certo in nome di egoistici interessi di famiglia.

Va bene non accorgersi di ipotesi di conflitto di interessi ben nascoste nelle pieghe di un decreto ma un Paese democratico non può permettersi il lusso di un’Autorità che rimanga inerte persino quando sono i giornali ad avvedersene.

Se nella prossima relazione al Parlamento dell’Autorità Garante, pertanto, dovessimo leggere, ancora una volta, che tutto va bene e che il conflitto, in Italia, non esiste, allora, vorrà dire che il problema non sono solo le leggi ma piuttosto chi dovrebbe – benché tra mille difficoltà – avere il coraggio di farle rispettare ma, per incapacità o mancanza di sufficiente indipendenza istituzionale, non lo fa.

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