Bono arriva in Italia e telefona a Roberto Saviano, dicendogli di aver letto i suoi libri e di volerlo conoscere. Saviano ritrova in sé sussulti da fan, forse rimossi dalla dura vita che si è scelto, e si avvia all’incontro della sua vita “come una groupie che perde ogni contegno davanti alla sua rockstar”. In una villa superblindata Bono lo accoglie con una prima massima di saggezza: “La prima, anche se piccola, vittoria contro le forze del male che ti circondano, è conservare il senso dell’umorismo. Quindi, devi combattere assolutamente, e lo fai essendo al di sopra di tutto, con il sorriso. Perché ridere – e ridi molto – è veramente la prova conclamata della libertà”. Accidenti. Ma dopo cinquant’anni di rockstar viziose/viziate, che ancora sbandierano con filosofia d’accatto la loro incontenibile filantropia, mancando l’obbiettivo più spesso che non, non è mai il momento di dire basta?

L’altra sera mi sono calato nel catino affollato dell’Olimpico, a Torino, per la grande rentrée del “360° Tour”, officianti gli U2. Un audio insopportabilmente fangoso era adeguato commento sonoro al gigantismo ridondante della scenografia (una cupola composta da quattro chele al cui centro campeggiava un imponente megaschermo circolare), che letteralmente schiacciava la band. Ho sempre creduto che, se c’è qualcuno sulla terra, che può modificare in meglio e riportare ad una dimensione umana il circo del rock, sono proprio loro, gli U2. Ma la dichiarata volontà di perseguire ogni variazione sul tema del glamour pop-rock (fin dai tempi di “Pop”) si traduce ancora in una coazione a ripetere, su scala sempre maggiore, un rituale ormai obsoleto.

Nulla da eccepire sulla musica, sia chiaro, ma non di sola musica si tratta qui. C’è qualcosa di disturbante, ad un certo punto del concerto, nell’apparizione sugli schermi dell’arcivescovo africano Desmond Tutu, premio Nobel per la pace 1984, in uno spot ecumenico stile cartoon che anticipa la canzone One. Mi chiedo quanti dei giovani presenti all’Olimpico sappiano chi sia quella specie di Babbo Natale nero che parla di “oneness” in un mondo irrimediabilmente diviso e atomizzato, dove è più facile emozionarsi per una canzone o per un popolo lontano che per le rogne del proprio vicino. Quando Tutu pronuncia la fatidica parola “one”, l’urlo dei ventimila è un tributo al suo “messaggio” o all’arpeggio di Edge che annuncia l’omonima canzone?

Quando un defilé di attivisti di Amnesty International, completi di lumini, si sparge lungo la passerella posizionata in mezzo al pubblico, pare un replay glamorizzato di certi concerti di venticinque (25!) anni fa, monumenti all’indifferenza di un pubblico che da sempre accorre solo per vedere le rockstar preferite e se ne fotte del cosiddetto “messaggio”. Così pure l’immagine dell’attivista birmana Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace 1991 e simbolo della lotta per i diritti civili, pare un santino agitato, forse per assolvere qualche coscienza.

Bono dice ancora a Saviano, il cui nome peraltro non è mai stato fatto dal cantante durante il concerto: “Sono certo che se riusciamo a spiegare meglio le cose agli italiani, credo che saranno poi loro a dire ai loro leader che cosa fare. Forse non ce l’abbiamo fatta, finora, a spiegare queste cose in maniera chiara, allora c’è bisogno probabilmente di trovare gente che abbia la dote di saper veicolare queste informazioni. Ce la farà l’Italia ad avere un nuovo inizio?”. A questo punto ho il dubbio che Bono abbia davvero letto i libri di Saviano. Forse una sbirciatina anche al “Ritorno del principe” di Lodato & Scarpinato (Chiarelettere) potrebbe fugargli d’un colpo certe idee stantìe sul nostro paese e sull’illusione, sempre più remota, di quel “nuovo inizio”.

Un quarto di secolo è passato dal primo tour americano di Amnesty International e dalla beffa del concertone di Live Aid (soldi requisiti dal governo etiope per l’acquisto di armi, cibo e medicinali lasciati marcire sulle banchine del porto d’arrivo). Molto è cambiato da allora: la comunicazione viaggia superveloce, il web ha stretto del tutto la sua tela globale, i social network sono un tam tam istantaneo, gli smart phones hanno liberato tutti dalla dipendenza da un computer. Lo spettacolo degli U2 cerca di afferrare per la coda uno spirito evaporato: quello della buona, vecchia aggregazione, per usare un termine anch’esso obsoleto. Estinta, come l’utopia hippy, la colère del Maggio parigino e il “no future” del punk. Lo show-business non conosce sentimentalismi e l’evangelizzazione oggi si fa a colpi di biglietti che arrivano fino a 287,50 euro. Ridicolo brandire valori ormai fuori corso (il prossimo è morto, alla faccia della “oneness”), credere che un sorriso possa vincere le forze del male e affermare che George W. Bush in fondo era un bravo ragazzo. Ma davvero siamo diventati così coglioni?

 

 

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