Non vorrei rovinarvi il Ferragosto, ma in questi giorni mi frulla nella testa un paragone storico inquietante. Spero sballato, campato in aria, al limite ridicolo: correggetemi voi se potete. Fino a qualche settimana fa credevamo di essere alla vigilia di un nuovo 25 luglio (1943, data della seduta del Gran Consiglio che spodestò il Duce), con la disgregazione della maggioranza e la conseguente, inevitabile caduta di Berlusconi.

Adesso, dopo il brutto papocchio di Montecarlo e lo scivolone di Fini, ho piuttosto l’impressione che siamo alle soglie di un nuovo 6 aprile (1924, quando il partito nazionale fascista prese il 61,3% dei voti alle elezioni politiche, e il regime si consolidò definitivamente). La legge Acerbo approvata l’anno prima dal consiglio dei ministri prevedeva un premio di maggioranza pari ai due terzi dei seggi in palio per la lista che avesse superato il 25% dei voti. Una riforma elettorale sostenuta anche dai liberali e da una parte dei popolari, che lo storico Sabbatucci ha definito un classico caso di “suicidio di un’assemblea rappresentativa”. Per giunta, i fascisti trovarono il modo di rubare altri 19 seggi alle minoranze presentando in varie regioni, oltre al Listone Mussolini una lista civetta (la lista bis). Le opposizioni di centrosinistra ottennero solo 161 seggi, benché al Nord fossero in maggioranza.

Adesso al posto di Acerbo c’è Calderoli con il suo Porcellum, il Listone ha il nome di un altro Cavaliere, i manganelli e l’olio di ricino sono (per ora) rimpiazzati dalle meno dolorose, ma ugualmente micidiali raffiche di piombo di Vittorio Feltri. Insomma, di analogie ne vedo tante, troppe. Sono un catastrofista, un disfattista o – come mi accusa Alfonso Berardinelli sul Corriere – un malinconico liberale professionista dell’indignazione? Vi prego, convincetemi che ho torto. E soprattutto, che gli italiani hanno imparato la lezione della storia e non ricadranno un’altra volta nella trappola del 1924, mandando a casa Berlusconi e la sua masnada. Prima che sia troppo tardi.

 

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