Ci sono, nella vita di ognuno di noi, degli incontri folgoranti. Degli spartiacque che delimitano un prima e un dopo. Per me, uno di questi è stato il saggio “La ricerca del significato” dello psicologo americano Jerome Bruner.

Nel testo, l’autore propone un rinnovato approccio alla psicologia che recuperi e metta al centro dell’analisi, “una scienza della mente basata sul concetto di significato e sui processi per mezzo dei quali i significati vengono creati e negoziati all’interno di una comunità”. La rivoluzione proposta sta nello spostare l’attenzione dal concetto di “elaborazione dell’informazione”, divenuto imperante in quegli anni (si parla dei primi’90), a quello di “costruzione del significato”. Nel far questo, Bruner si volge alla cosidetta “psicologia popolare” o “senso comune”, e ci lascia in eredità alcune autentiche perle di riflessione critica sulla narrazione e il ruolo della narrazione nella nostra vita quotidiana.

Tralasciando lo sfondo teorico, che poco ci interessa qui, e venendo al dunque, Bruner osserva come nell’esperienza quotidiana la narrazione sia un’attività onnipresente che assolve a diverse funzioni: codifica l’esperienza intra- e inter-personale, negozia le nostre spiegazioni, sostiene le reciproche perfomance retoriche. La narrazione popolare o quotidiana assolve poi anche l’importantissimo compito di mantenere l’ordine, incorporando il dissimile e lo straordinario su uno sfondo condiviso. Molte delle narrazioni popolari sono racconti di trasgressioni, raccontano non di come le cose sono ma di come dovrebbero essere, inglobando in un tessuto di riferimenti comuni fatti altrimenti eccezionali.

“Per sua natura”, dice Bruner, “la psicologia popolare è organizzata su base narrativa, piuttosto che logica o categoriale. La psicologica popolare si occupa di soggetti umani che compiono azioni basate sulle loro credenze e i loro desideri; soggetti che sono tesi al conseguimento di determinati fini, che incontrano ostacoli sui quali hanno la meglio o dai quali vengono soverchiati, e tutto questo nell’arco di un certo periodo di tempo”.

Non è un caso che a questa ricca citazione segua un elenco delle proprietà della narrazione:

  • la sequenzialità, per cui una narrazione è tale proprio perché comprende un certo numero di azioni ed eventi, compiute o subiti, da un certo numero di agenti secondo una sequenza temporale (che può essere modificata, secondo la famosa distinzione tra fabula e intreccio, ma che deve necessariamente essere presente.) Il principio fondamentale della narrazione è quello della causalità, cioè il principio di causa-effetto, che concatena le varie parti di un racconto in una sequenza logica.
  • l’indifferenza ai fatti, intesa come indifferenza alla realtà e alla verità a favore del realismo e della verosimiglianza. In una narrazione non interessa che ci si riferisca a fatti reali o immaginari, l’importante è che siano narrati in maniera logica, sequenziale, coerente e credibile;
  • la capacità di stabilire, come accennato, legami tra l’eccezionale e l’ordinario. Il racconto permette di trovare una motivazione o, come direbbe l’esperto uno “stato intenzionale”, che riesca a mitigare, cioè a rendere comprensibile se non del tutto giustificabile, una deviazione dalla norma. Il sistema di usi, costumi, credenze cui la psicologia popolare si appoggia fornisce all’attività narrativa quotidiana una riserva aneddotica che agisce al tempo stesso come codice di esempi e come archivio in espansione.
  • un aspetto teatrale che ci permette di sfruttarla per fini retorici, ovvero per persuadere e convincere gli altri delle nostre ragioni. Nel citare questo aspetto, Bruner ricorda i famosi cinque elementi che Kenneth Burke riteneva alla base dei racconti di buona fattura: un attore, un’azione, uno scopo, una scena e uno strumento. E naturalmente un problema, cioè uno squilibrio tra due o più degli altri cinque elementi.
  • l’ultima proprietà, già citata, è quella di organizzare la nostra esperienza, permettendoci di ridurla in sequenze e schemi narrativi, suggellati da ricordi emotivi. Dice Bruner “la forma tipica di strutturazione dell’esperienza e del nostro ricordo di essa è narrativa, al punto che […] ciò che non viene strutturato in forma narrativa non viene ricordato.”

La parte in assoluto più interessante del saggio di Bruner, però, è la successiva. Quando cioè tenta con successo di dimostrare come queste proprietà della narrazione si esprimano nel processo di sviluppo linguistico dei bambini. E non nel senso che potremmo immaginare. Saremmo portati a credere che, proprio perché la narrazione riveste una simile importanza nelle nostre negoziazioni quotidiane, imparare a parlare possa agevolare i bambini nei loro scambi col mondo esterno. Ma per Bruner, non è esattamente così. Non è la narrazione a modellarsi sul linguaggio, bensì è il linguaggio a modellarsi sulla narrazione. E’ come se i bambini possedessero una capacità innata a orientarsi verso quelle forme grammaticali e linguistiche che consentiranno loro di realizzare narrazioni più compiute ed efficaci. Bruner le definisce “attitudini prelinguistiche per classi selettive di significato”. Sono loro, le più spendibili in termini narrativi, le prime ad essere apprese e utilizzate.

Che l’approccio di Bruner sia assolutamente o parzialmente valido, o magari sia stato completamente smentito nel tempo, questo poco importa. Ci resta la suggestione di una capacità narrativa innata che ci fa tutti narratori sin dalla culla. Che ci rende pertanto sensibili alle narrazioni altrui. Ma anche plasmabili dalle forme retoriche utilizzate dagli altri. Perché in questa che è una capacità assolutamente democratica si annida anche un principio di potere e di sopraffazione.

Se tutti (compresi i bambini!) sono recettivi a un certo tipo di comunicazione, in questo caso quella narrativa, in un periodo di grande impoverimento narrativo (come sempre sono i periodi di crisi economica o i regimi dittatoriali), anche una narrazione semplice e banale, addirittura incoerente ma capace di ritrattare continuamente se stessa, appoggiata all’enfasi della retorica e alla immediatezza dello slogan, può convincere e creare proseliti.

Per questo, accademicamente ripeto, è bene conoscere e ri-conoscere i meccanismi della narrazione!

A presto, con la prima “lezioncina” dello Scriptorium,

P.

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