Anni fa conobbi a Siena una scrittrice di libri per ragazzi. Era una tranquilla signora sulla sessantina, gentile e dedita ad appassionanti conversazioni sulla storia dell’arte e sui misteri del Palio. Ero allora un giovane studente di storia dell’arte, facemmo amicizia e acconsentii con piacere quando mi chiese se potevo darle un passaggio fino a Roma. Seppi dopo qualche giorno che la signora era la discendente diretta del pittore simbolista Arnold Böcklin, l’autore di uno dei quadri più celebri dell’intera storia dell’arte, “L’isola dei morti”.

Per ricambiare il passaggio in macchina che le avevo dato mi telefonò una settimana dopo e mi invitò a prendere un caffè a casa dell’anziana madre. Con l’occasione mi mostrò una copia dell’“Isola dei morti” che sua madre conservava nel salotto di casa, mi disse che si trattava di un quadro di poco pregio, opera di uno dei figli di Böcklin, anche se la mia fantasia corse subito a una delle cinque copie conosciute dell’“Isola dei morti” di Böcklin padre, e precisamente a quella andata distrutta a Rotterdam durante la Seconda guerra mondiale.

È del tutto chiaro che ero caduto in un’ingenua e candida suggestione da studente, tuttavia restai così a lungo a contemplare il rematore e la figura vestita di bianco che sulla piccola barca attraversano le acque profonde che danno accesso all’isola, da rimanerne turbato per tutto il tempo che durò quella visita.

La visione simbolista di Böcklin del resto non hai mai smesso di ammaliare gli uomini. Adolf Hitler ne fu ossessionato al punto da volere nel suo studio privato una delle cinque copie originali, il dipinto compare in una famosa foto che ritrae il Führer in compagnia di Molotov e Ribbentrop appena dopo aver firmato il patto russo-tedesco del 23 agosto del ’39. Nell’aprile del 1945, quando l’Armata Rossa entrò nel bunker della cancelleria di Hitler a Berlino, il quadro era ancora appeso alla parete dello studio di Hitler. Gli storici dicono che fu un generale russo a staccarlo e a portarlo a Mosca, dove rimase fino al 1979 quando fu riacquistato dal governo tedesco ed esposto alla Alte Nationalgalerie di Berlino, dove si trova tuttora.

Anche Stalin aveva una tela prediletta, un quadro di Ilya Repin raffigurante la risposta dei cosacchi del Zaporož’e al sultano di Turchia, di cui aveva una riproduzione in camera da letto. C’è chi dice che la tela rappresentasse il suo ideale di Politbjuro, una riunione aspra e volgare di uomini ebbri di eroismo.

Al di là dei miei vagheggiamenti solitari in quel pomeriggio d’estate di fronte alla copia dell’“Isola dei morti” di Böcklin, mi sembra evidente che il potere di suggestione delle opere d’arte a volte sia tale da trascendere ogni ragionevole senso, e che nei loro quadri preferiti i potenti del mondo a volte sembrano celare la prefigurazione dei loro destini.

A questo proposito Berlusconi ha recentemente smentito di voler acquistare “La conversione di Saulo” del Caravaggio. Perché allora qualcuno non gli suggerisce “Il riposo durante la fuga in Egitto”?

Articolo Precedente

Fenomenologia del post-degustatore

next
Articolo Successivo

Il ritorno dei Soundgarden

next