Le persone della mia generazione hanno un rapporto nervoso con gli anni Settanta. Nella loro testa ci sono ancora pomeriggi pieni di nubi, gli odori acri del fumo, quelli dolci degli oleandri e degli inverni che non passavano mai. E poi quelle estati afose in cui l’umidità notturna e odorosa usciva dai sampietrini di Roma.

C’è un culmine negli anni Settanta, lo sappiamo tutti, e ce lo ha ricordato la morte recente di Eleonora Chiavarelli, la vedova di Aldo Moro. Quel culmine è nelle lettere di Moro dalla prigionia, in quelle parole dolci e sbiadite che spaccano il cuore, così private e insieme assolute e universali da far pensare ai padri neoplatonici.

C’è una qualità letteraria profonda e insondabile nella misteriosa luce di cui parla Moro nella sua ultima lettera a Noretta, in quel suo voler “capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo”. Non credo che alcun verso possa pareggiare il senso di un interrogativo tanto grande come quello che assale un uomo quando serba nell’anima la coscienza della morte incombente, non c’è poeta al mondo capace di restituire l’angoscia e il desiderio di un paradiso come in quel famoso “se ci fosse luce, sarebbe bellissimo”.

Gli scrittori italiani nati negli anni Settanta devono inconsciamente fare i conti ogni giorno con il trauma originario di quelle parole. Le lettere di Moro sono infatti, io credo, il capoverso di una generazione di autori. L’impossibilità generale di affrontare il tema degli anni di piombo che grava sulla nostra letteratura recente, a parte qualche lodevole eccezione, è forse figlia di questo trauma.

Vero o no, resta il fatto che gli anni di piombo non hanno generato quel fervore letterario che invece contraddistinse il secondo dopoguerra. Ricordo per esempio ciò che disse Calvino a questo proposito in una testimonianza del ’64: “L’essere usciti da un’esperienza – guerra, guerra civile – che non aveva risparmiato nessuno, stabiliva un’immediatezza di comunicazione tra lo scrittore e il suo pubblico: si era faccia a faccia, alla pari, carichi di storie da raccontare”. Non i quarantenni di oggi dunque, ma neppure gli scrittori delle generazioni precedenti, che pure avevano in qualche modo vissuto da spettatori coscienti l’esperienza della lotta armata e del terrorismo, sono stati capaci di elaborare quel trauma.

Giorni fa leggevo alcuni versi del poeta sloveno Peter Kolšek che mi hanno fatto pensare al gravame delle lettere di Moro su noi figli degli anni Settanta. Quei versi fanno così: “Pensi che ti salutino i bambini, / ma davanti ai tuoi occhi aleggiano / le loro mani ferite. / La tua presenza è sempre più superflua / e sempre più assordante”.

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