Piccole banche americane muoiono. Nell’anonimato. E non potrebbe essere altrimenti, considerati i luoghi sconosciuti dove si trovano. Se, come la maggioranza dell’umanità, non abitate nelle cittadine di Lantana (Florida) e Jasper (Georgia) o non siete uno dei 1.400 residenti di Cave Junction, nell’Oregon, nomi come Sterling, Home Valley e Crescent restano le voci di un elenco senza significato. Quello, tanto per intenderci, che nessuno a Washington vorrebbe continuare ad aggiornare e che pure insiste nel crescere a ritmo incalzante. Nomi di banche locali o, per meglio dire, ex banche, visto che non esistono più da venerdì scorso. Schiacciate dal peso di debiti insostenibili sono ormai fallite e, al pari degli istituti Williamsburg First, Thunder Bank, Community Security e Southwest, hanno appena chiuso i battenti. La notizia passerebbe quasi inosservata se non fosse che adesso le dimensioni del fenomeno iniziano davvero a fare paura.

L’ultima ondata di default ha portato il numero degli istituti falliti dall’inizio dell’anno a quota 103, un autentico sproposito. Anche nel 2009 si era superato il traguardo delle cento unità ma, allora, erano stati necessari dieci mesi. Il record delle 140 bancarotte registrate lo scorso anno dovrebbe essere ampiamente battuto alla fine del 2010 smentendo così quella retorica de “il peggio è passato” che nell’amministrazione Obama è divenuta ormai un must irrinunciabile. Gli analisti si preoccupano e hanno le loro buone ragioni. Secondo Michael Snyder, ricercatore e commentatore di Seeking Alpha, uno dei principali blog finanziari del mondo, è giunto il tempo di ammettere che “il sistema bancario americano sta morendo”.

Il guaio è che non si tratterà di una moria indolore. Il sistema potrà anche fare a meno di qualche centinaio di piccoli istituti ma i costi del loro fallimento graveranno sull’intera nazione alimentando un circolo vizioso a dir poco allarmante. In cima alla lista, ovviamente, ci sono i guai della Federal Deposit Insurance Corporation (Fdic). Si tratta dell’organismo di garanzia sui fallimenti, una sorta di cassa di compensazione statale. Quando la banca in cui avete depositato i risparmi di una vita chiude la Fdic interviene, entro certi limiti, per restituirvi la somma equivalente. Attingendo ai suoi fondi, ovviamente. I soli default della scorsa settimana sono costati all’ente 431 milioni di dollari contribuendo così a una crescita del suo saldo negativo stimato oggi in 20,7 miliardi di biglietti verdi. E così, mentre i conti federali si deteriorano ulteriormente e il debito Usa si gonfia all’infinito, una domanda inizia a sorgere spontanea: chi ripianerà i buchi di bilancio? Risposta scontata: i contribuenti. Peccato però che questo ennesimo onere ne minerà la capacità di spendere vanificando almeno in parte quegli sforzi di rilancio dell’economia che la Casa Bianca giudica tuttora ancor più importanti di qualsiasi manovra di ripianamento dei conti.

Ma la storia, già di per sé tragica, non potrebbe ovviamente esaurirsi senza sferrare l’immancabile beffa finale. A trarre vantaggio dai decessi bancari, nota ancora Snyder, saranno proprio coloro che al collasso hanno dato il via: in un mercato in costante perdita di operatori a guadagnare terreno sono soprattutto le mega istituzioni finanziarie. Tecnicamente fallite ma sopravvissute per causa di forza maggiore, le famose “Big Six” (Goldman Sachs, Morgan Stanley, JPMorgan, Citigroup, Bank of America e Wells Fargo) possiedono oggi un patrimonio equivalente al 60% del prodotto interno lordo americano e promettono di crescere ancora occupando nuove quote di mercato. Limitarne il potere, ad oggi, sembra sempre più un’impresa disperata.

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