Sto scendendo a terra insieme a due membri dell’equipaggio. Una voce mi chaima. E’ un giovane e solerte sottufficiale della Capitaneria di Porto di Ponza che mi contesta il numero di persone a bordo del tender (il piccolo gommone con cui si sbarca). Siamo in tre ma il gommoncino è omologato per due. Con mare immobile e tender ben gonfiato non avrei certo problemi di sicurezza, ma lui ha ragione, dunque faccio scendere uno dei miei e riparto.

Poco dopo prendiamo la banchina per la sera (cioè ormeggiamo a terra) proprio davanti alla Capitaneria, e un signore che ci ha aiutati nell’ormeggio ci chiede venti euro. Ce li chiede così, non si sa bene per cosa. Non comprendo se sia una mancia o una tassa. Poi vedo che fa lo stesso con tutti. Glieli diamo. Il tutto avviene davanti a esponenti della capitaneria. Intendo dire: a due metri da loro. Se dobbiamo del denaro a questo signore vorremmo una ricevuta fiscale, ma il suo tono di voce basso e quasi furtivo ci fa capire che non l’avremo.

L’arrivo a Ponza è imbarazzante. Tanto è bella l’isola, tanto sono adorabili e amici i suoi abitanti, tanto è trasandata, mediocre, disorganizzata la condizione della banchina, dove non si può avere ormeggio, servizi, acqua, elettricità, e dove non c’è neppure un punto d’atterraggio per i tender. Le barche sono costrette a stare all’ancora, sempre se non c’è mare e vento, altrimenti via. Un tempo c’erano i pontili galleggianti, che almeno offrivano un ormeggio e un aiuto. Loschi affari e procedimenti giudiziari piuttosto criptici li hanno tolti di mezzo.

Eccola l’Italia. Servizi pessimi, o inesistenti, regole tutte da interpretare, inflessibilità (sacrosanta) su alcune cose e lassismo, clientela, su altre. Diritto e servizi, che dovrebbero seguire una logica diversa ma parallela, divergono.

La sera, seduto in un bar, mi godo il tramonto. Penso, con un poco di sgomento, all’effetto che fa questa isola a uno straniero…

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