Ascoltando le programmazioni musicali proposte dalle radio o leggendo di musica su molti quotidiani, è sempre più difficile non incorrere in artisti o canzoni uscite da qualche talent show televisivo.

L’ennesima omologazione ha invaso terreni fino a poco tempo fa ancora immuni dalla clonazione catodica.

Da X Factor ad Amici, da Ti lascio una canzone a Io canto, giusto per citare i più conosciuti, è un continuo fiorire di format tutti uguali che grazie alle telecamere e al televoto assicurano quel quarto d’ora di notorietà che come diceva Andy Warhol, non si nega a nessuno, visto che oramai sei, se appari.

Di questo ne siamo vittime un po’ tutti, noi ascoltatori che dobbiamo sorbirci i cosiddetti “nuovi talenti”, gli aspiranti artisti perché da quel miraggio di notorietà presto rimangono delusi e soprattutto la musica perché l’invadenza televisiva, oscura autentici “talenti” che non trovano poi lo spazio per essere messi in onda, in quanto straoccupato dai protagonisti della televisione.

Eppure la storia del rock, del pop, del soul è piena di grandissimi artisti mandati in onda da coraggiosi disc-jockey che scommettendo in prima persona, li hanno poi imposti nelle scalette.

Far finta che i talent show non esistano e non siano diventati un fenomeno di massa sarebbe ridicolo, man far passare il concetto che lì, negli studi televisivi, passi il nuovo modo di fare musica è una bestialità che a mio avviso va contenuta.

La musica è lì, anche lì, ma è soprattutto altrove, nelle tante scuole dove senza pubblico e senza telecamere migliaia di ragazzi s’impegnano ogni giorno, non per essere poi riconosciuti per strada, ma per cercare di crescere nella musica e con la musica. Nei tanti posti dove ogni sera centinaia di band e cover-band si mettono alla prova per avere sul palco quell’applauso che continui a tenere accesa la passione di suonare, nei pochi spazi rimasti in poche radio dove è possibile ascoltare brani e artisti di vero spessore.

Oggi vorrei presentarvene uno che ho scoperto lo scorso anno e che in queste settimane, con l’uscita del nuovo disco: “Come and get it” mi ha dato una piacevole conferma.

Eli “Paperboy” Reed è un vero, nuovo talento del rythm’n’blues, di quello migliore e pensare che ha solo 24 anni.

Ritmica fenomenale e arrangiamento dei brani con sezione fiati nella migliore tradizione della Stax o dell’Atlantic del periodo d’oro, non arrivano casualmente. Eli “Paperboy” Reed ha già un mestire da veterano e sa come far vibrare, alla maniera soul, le corde vocali.

Si è perdutamente innamorato di questa musica, ascoltando sin da bambino, la sterminata collezione di dischi di suo padre, che nella vita faceva il critico musicale.

Questo mi fa ben sperare, non a caso sto insegnando a mio figlio Matteo come si appoggia la puntina sul vinile.

Le canzoni di questo disco hanno attacchi potenti e grande tensione che mantengono dall’inizio alla fine, ma ogni brano deve anche avere una struttura definita sulla quale poi lavorare di fino in fase di arrangiamento.

Provate a sentire com’era questa canzone: “Name calling” nuda e cruda  e come è diventata dopo l’arrangiamento

 E’ difficile incontrare un tale concentrato di Rufus, Wilson Pickett e james Brown in un ragazzo così giovane e per di più bianco.

La grammatica del soul e la sintassi del r’n’b ce l’ha davvero tutte e anche quest’altro brano ne è la conferma: Explosion

Ma l’ascolto dei dischi effettuato durante tutta l’infanzia, grazie ai vinili che giravano ininterrottamente per casa, tradisce anche una passione per Marvin Gaye: Pick a number

Vi dicevo di quanto in questo disco di Eli “Paperboy” Reed tornino alla mente atmosfere e suoni degni della migliore tradizione della Stax, della Atlantic di tempi d’oro di Ahmet Ertegun e della Motown di Berry Gordy.

Il brano che da il titolo al disco ne è forse la sintesi migliore: Come and get it

Buon ascolto e buon divertimento!

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