In queste settimane post-mondiale ritorno con la mente alle mie esperienze africane, anche aiutato dagli ultimi incontri di questi giorni. In effetti, ho avuto l’occasione di trovarmi con il direttore del Museo di Bamako. Con lui ho ripercorso la mia visita, avvenuta alcuni anni fa, al direttore del museo di Timbuctu, la famosa città maliana, fonte d’inarrivabile mistero per gli europei e di orgoglio espansivo per gli arabi.

All’alba, prima del mercato che raccoglie i contadini di tutta la regione, Timbuctu si accende di riflessi di piccole sagome. Sono i “talibè”, allievi delle scuole coraniche, in gran parte riservate a chi viene da villaggi sperduti seguendo il marabutto, il maestro. Secolare crocevia di spiritualità islamica africana assieme a Djenné e, come quest’ultima, importante porto sul fiume Niger dei flussi di ricchezza – oro e sale in particolare – verso l’Arabia e l’Europa, Timbuctu è ricca di storia e di cultura. Da sempre vive il conflitto tra l’Islam laico e tollerante, intrecciato alla tradizione animista di tutto il Mali, e l’aggressività delle sette wahhabite finanziate dai petrodollari arabi e in cui si predica la jihad. Eppure la religione del Corano nell’Africa nera è in prevalenza molto aperta e tollerante, erede del misticismo Sufi. Qualcosa come la tradizione araba della grande espansione in Europa e dei governi illuminati di Istanbul e Costantinopoli, negli anni in cui il pellegrinaggio alla Mecca della corte fastosa del principe di Timbuctu, attraverso i paesi conosciuti del Nord Africa, aveva creato in tutta Europa la leggenda della città dalle fondamenta d’oro.

Al Festival du Desert che si tiene a Essakane, 60 chilometri a nord di Timbuctu, il capo del governo regionale – un tuareg che ha deposto le armi solo 8 anni fa – ha inneggiato alla solidarietà nella diversità e poi, prima di dare il via ad un incredibile concerto di musica maliana tra dune bianchissime (solisti cantastorie accompagnati da rock, blues e percussioni afro con flauti magrebini), ha chiesto a tutti di vivere con orgoglio la loro integrazione ed il rispetto quasi mistico per la natura.

Io c’ero e ne ho parlato con ammirazione il giorno dopo con il direttore del Museo Etnografico della città. Conosceva in modo profondo la letteratura italiana moderna e citava titoli e situazioni di Moravia, Buzzati e Pavese e, con mia grande sorpresa, leggeva i giornali italiani in Internet. Quando ci ha chiesto, con un mezzo sorriso, del “Cavaliere”, me la sono cavata bene dicendo che sto da tutt’altra parte. Quando poi mi ha scoperto varesino, ha chiesto severamente perché Umberto Bossi chiami quelli come lui “bingo bongo”. Mi sono ovviamente vergognato. A migliaia di chilometri da casa, mi sono chiesto perché mai Varese debba essere condannata a continuare a vivere il disagio di un sindaco leghista senza progetti, di un ministro dell’Interno cacciatore di rifugiati e di un marchio di chiusura che la sua storia non recente non merita proprio.

Articolo Precedente

Le lettere dell’odio. “Ti uccideremo come nessuna donna è stata mai uccisa”

next
Articolo Successivo

‘Emergency a volte, forse, va troppo in là’

next