Una cucina, un frigorifero, un tavolo con le sedie, un divano con un televisore davanti. Nella stanza dell’affettività, Franco – 49 anni, detenuto da due anni a Bollate per un reato comune – dopo tanto tempo, potrà riabbracciare i suoi cari. In questo spazio, costruito nel 2007, per un giorno intero loro potranno parlare davanti a un caffè o giocare, abbracciarsi e baciarsi; come una famiglia normale dimenticare di essere dentro un carcere. Tutto questo lontano dagli occhi delle guardie, che in un’altra stanza osservano le immagini trasmesse dalle telecamere nascoste. La moglie assieme ai tre figli sta consegnando i documenti all’entrata della casa di reclusione, mentre Franco, accompagnato dal caporeparto, è già nella stanza dell’affettività. Ancora qualche minuto e un giorno speciale potrà cominciare.

Quando nel novembre 2008 si iniziò a parlare di “Piano carceri” (prevedeva la costruzione di nuovi edifici), i detenuti presenti in Italia erano circa 56mila. Oggi nelle 206 prigioni italiane ci sono 67.444 detenuti. Troppi, visto che i posti – almeno sulla carta – sono solo 43.000. Ma se nella maggior parte dei penitenziari il sovraffollamento è la regola, così non accade nella casa di reclusione di Bollate: aperta nel 2001, divisa in sei sezioni, 750 detenuti (tutti con condanna definitiva), la casa di reclusione attua un regime sperimentale di custodia attenuata che permette a oltre 500 carcerati di lavorare, dentro e fuori il carcere. Se in Italia il 44% dei detenuti commette un nuovo delitto, qui la recidiva è decisamente più bassa, del 12% fra chi usufruisce dei permessi premio e dei lavori in esterno.

Dare significato alla pena”. E’ questo il principio da seguire per evitare che il carcere diventi una scuola del crimine e che, allo stesso tempo, preveda l’accoglienza, all’interno degli istituti, di spazi in cui liberare gli affetti. Lucia Castellano è la direttrice di Bollate, ed è lei la mente di questo sistema diventato oramai un modello. Ma come funzionano queste stanze dell’affettività? “Oltre ai normali colloqui tra detenuti e familiari – risponde Castellano – diamo la possibilità a 16 famiglie del carcere di incontrarsi in una piccola casa dotata di microtelecamere nascoste. Sono gli educatori,ogni anno, a selezionare i nuclei familiari più sofferenti”. I risultati, garantisce il direttore di Bollate, sono evidenti: “Sono i figli, più di tutti, a giovarne”.

Benché sperimentale, le stanze dell’affettività di Bollate rispettano alla lettera ciò che dice la legge. Dunque, il suo modello potrebbe essere replicabile. L’articolo 28 della legge penitenziaria fornisce solo le linee guida da seguire nei rapporti dei detenuti con le famiglie: “Particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o stabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie”. Ma per chi tutti i giorni deve fare i conti con la realtà del carcere, la quotidianità assomiglia a un campo minato da mille cavilli legislativi. Il risultato finale è un paradosso regolamentato: “Abbiamo le armi spuntate – afferma Castellano – da una parte c’è l’articolo 28 della legge penitenziaria. Ma come si fa a garantire questo principio con soli sei/ otto colloqui al mese, come prevede la legge stessa?” Le stanze dell’affettività non dovrebbero essere una conquista, ma solo un primo passo verso l’applicazione effettiva della legge.

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