Milano perde la sua anima padana

A guardare la mappa catastale dei terreni a sud di Milano si resta di sasso: è una scacchiera con decine di caselle colorate di scuro. Sono le terre che Ligresti in anni e anni di paziente lavorio ha comprato, una dopo l’altra. Appena un proprietario mostrava segni di cedimento, ecco che le società di Salvatore si facevano avanti. Davvero incredibile: il più grande costruttore di Milano è anche probabilmente la persona che possiede più terreni agricoli, più cascine. Un impero che ha il suo centro nella zona intorno a via Ripamonti, quella strada dritta e stretta che parte dal centro di Milano, corre in mezzo ai palazzi sempre più bassi, sempre più radi e all’improvviso si ritrova tra i campi.

Ecco, tutto intorno sono terre di Ligresti. Ma perché un uomo con un fiuto così eccezionale per gli affari immobiliari ha deciso di investire in una zona vincolata a parco? Possibile che dopo aver costruito decine di milioni di metri cubi si sia convertito al verde e all’agricoltura? No, nessuno ci crede, Ligresti il cemento ce l’ha nel sangue. Per lui, arrivato dalla Sicilia con quattro spiccioli in tasca, è il simbolo del riscatto. Del successo. Niente è più concreto e definitivo di un palazzo.

Ma allora perché? «Ligresti ha cominciato a comprare da anni, decenni. Sperava che i vincoli, come troppo spesso succede in Italia, cadessero, capiva che quella macchia di terreno ancora vuoto a sud di Milano prima o poi sarebbe diventata la nuova frontiera della città» spiega Renato Aquilani, presidente dell’Associazione per il Parco Sud. E forse Salvatore ci ha visto giusto: le ruspe hanno cominciato a tracciare solchi sulla terra dove fino a pochi anni fa marciavano i trattori. Ma c’è anche un’altra possibilità: il Comune ha deciso di attribuire ai terreni del parco un indice di edificabilità dello 0,2. Insomma, si potrebbe costruire. Almeno sulla carta, perché subito sindaco e assessori hanno fatto una promessa: gli indici sono per così dire «fittizi»; in pratica i proprietari delle terre, grazie al meccanismo delle perequazioni (o compensazioni), potranno sfruttare altrove i diritti di edificazione di cui godono nel parco. Un meccanismo complesso, per noi comuni mortali. In pratica è una sorta di gioco delle tre carte per dare ancora via libera al cemento: tu mi dai i tuoi diritti sulle zone agricole e io ti lascio costruire in un’altra zona.

Insomma, Ligresti può stare comunque tranquillo: se non costruirà a sud, lo farà a nord. Cambia poco. Del resto ormai Milano la sua scelta per il cemento l’ha compiuta da tempo: basta vedere che fine hanno fatto le aree «recuperate» negli ultimi anni. Prendiamo l’area che ospitava la vecchia Fiera. Dopo il trasloco degli spazi espositivi a nord-ovest, verso Rho, si sono liberati 36 ettari a due passi dal centro. Un tesoro, per una città strangolata dal traffico e dal cemento. «Diventerà il Central Park di Milano» promise l’allora sindaco Gabriele Albertini. Non è andata così: al posto dei vecchi ed eleganti padiglioni si realizzerà il grande progetto City Life (anche qui Ligresti è della partita). Invece del polmone verde promesso dai politici e chiesto dai cittadini stanno nascendo tre grattacieli che proietteranno la loro ombra su mezza Milano: una torre a forma di banana alta 140 metri uscita dalla matita dell’architetto americano Daniel Libeskind, una torre di 170 metri disegnata dall’irachena Zaha Hadid e un colosso di 209 metri partorito dal giapponese Arata Isozaki. Dovevano essere il simbolo della Milano proiettata verso il mondo e invece ci sono voluti due architetti come Vittorio Gregotti e Leonardo Benevolo per accorgersi che l’opera di Isozaki è un grattacielo di seconda mano, un progetto già utilizzato per una città giapponese e poi tirato fuori dal cassetto per Milano. Altro che città internazionale, questo è il trionfo del provincialismo.

Ma non c’è soltanto City Life, ci sono anche Porta Garibaldi, la nuova sede della regione e Santa Giulia. Ovunque cemento, milioni di metri cubi, magari conditi dalla moda del momento: i grattacieli. Meglio se firmati da architetti come Cesar Pelli.

Questa, però, è un’altra storia. Il punto è un altro: dopo la cementificazione degli anni Cinquanta e Sessanta – che per lo meno era dettata dallo slancio del boom economico e dal desiderio di lasciarsi alle spalle le distruzioni della guerra – adesso Milano ha deciso di mangiarsi gli ultimi spazi disponibili. […] (segue a pagina 3)

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Da “La Colata”
Milano: Ligresti alla conquista del Parco Sud

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