Della loro povertà avevano sempre riso. Non della povertà in generale. A quella, se capitava di parlarne, dedicavano la sommessa indignazione con cui si stigmatizzano le Grandi Ingiustizie Mondiali. Non li riguardava da vicino. Si materializzava in bambini nudi con la pelle scura, così spossati da non avere la forza di allontanarsi le mosche dalle palpebre. Non sei mai povero nei Paesi ricchi. Al massimo sei senza soldi. Loro erano senza soldi.

“Non so se te ne sei reso conto, ma siamo rimasti senza un soldo”. Gli avrebbe detto proprio così. Avrebbe aperto il frigorifero, dove una crosta di Parmiggiano, due mezzi limoni e una barretta di muesli sottolineavano il vuoto e avrebbe coraggiosamente sorriso. L’importante era riuscire a sorridere. Finchè sorridi ogni concreta mutazione di status è esclusa.
Ricchi non erano mai stati, e nemmeno benestanti, Betta e Tom. Ogni tanto qualche offerta di lavoro incassata come un colpo di fortuna, portava in casa improvvise allegrie spendaccione.
Qualche turno di doppiaggio per Betta, tre mesi sul set come aiutoregista che Tom non osava rifiutare. Dieci anni fa l’avrebbe fatto, ma sapeva di non poterselo più permettere. Da 13 mesi, comunque, quella sua nuova modestia accomodante non veniva più messa alla prova.

Nessuno proponeva lavoro. Né a Betta, diplomata attrice da un corso triennale intitolato a Memè Perlini, né a Tom, autore del lungometraggio: “Gli schiavi della libertà”, applaudito fuori concorso al festival di Toronto. La posta elettronica, consultata affannosamente ogni due ore, non portava altro che inviti alle proiezioni e alle presentazioni dei film degli altri, pubblicità di pillole che pompavano il pene, occasioni speciali per vacanze impossibili. I telefoni cellulari tacevano. Betta si guardò attorno alla ricerca del suo. Non era mai troppo lontano da lei. Lo ritrovò e, per un attimo, lo guardò intensamente. Poi ricominciò a guardarsi attorno, quasi dovesse cercare ancora qualcosa. Quello spazio a cui aveva sempre pensato con parole gradevoli come living e loft, le apparve per quello che era, 28 metriquadri occupati da un divano che di notte diventava letto, da un tavolo da pranzo troppo grande, da una poltrona di pelle sfondata al centro e da una libreria dove i libri giacevano accatastati senza un ordine. Dietro due porte chiuse, un bagno angusto oppresso da 4 riproduzioni di Chagal perennemente umide e la cameretta, 10 metri quadri di cui Sara si lamentava ininterrottamente. Sulla parete in fondo una cucina dipinta di un rosso chiassoso.

Questa non è una casa , è una tana. Sei l’unica che non dorme con l’odore delle cotolette sotto il naso, taci e ringrazia. Scambi di frasi ricorrenti. Chissà se provando, per una volta, a non pronunciare la frase prevista, la realtà sarebbe cambiata. Questa non è una casa, è una tana. Hai perfettamente ragione, figlia mia, questa non è una casa è una tana scavata nella terra per difendere me te e tuo padre da una denuncia per vagabondaggio.

Abbiamo una “fissa dimora”. E comunque non più per molto. Doveva dirlo a Sara che non pagavano il mutuo da sette mesi? Si dice o non si dice ai figli che le figure genitoriali sono nella merda fino al collo?

Cari frequentatori de “ilfattoquotidiano.it”, questo è l’inizio di una storia. Mi è venuta in mente riflettendo sulle nuove povertà. Quelle di tanta gente che, in altri tempi, se la sarebbe cavata. Con la cultura, con l’arte, è difficile diventare ricchi (meglio sculettare, meglio vendersi), però, tuttosommato, si campava. Ora non si campa più. Chiudono l’Eti, saltano le produzioni di fiction tv, quel poco che “parte” lo girano in altri mondi ( il secondo, excomunista) per risparmiare, lasciando sul lastrico migliaia di lavoratori. I tagli alla cultura: fine dello spettacolo dal vivo, dei concerti, delle rassegne di letture o poesia. Una doppia povertà: quella di chi ci lavorava e non lavora più. Quella di un paese colpito nel suo immaginario. Vogliamo continuare a raccontarcela, la storia di Tom, Betta e Sara? Volete raccontarmi le vostre storie?

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