Non è solo il Golfo del Messico a essere devastato dal greggio. Molto più vicino all’Italia, una piattaforma situata a nord della località balneare di Hurghada, sul mar Rosso, ha cominciato a perdere “oro nero”. Una perdita che è stata individuata intorno alla metà di giugno, ma la notizia è arrivata con molti giorni di ritardo. Silenzio assoluto all’inizio, poi dalla Rete i primi riscontri e la preoccupazione che le autorità egiziane intendano minimizzare l’entità del danno.
Alla base di questa vaghezza sembrerebbe esserci la paura di un eventuale allarme su larga scala che potrebbe portare a cancellazioni di massa delle prenotazioni e al naufragio della stagione turistica, sulla quale si regge l’economia della zona. L’allarme, secondo gli ecologisti, è scattato troppo tardi e, se ancora non sono quantificabili i danni, le fonti parlano di diversi chilometri di costa compromessa, forse dai 35 ai 160. Il bilancio per ora sono le centinaia di tartarughe, delfini e varie specie di pesci morti o agonizzanti.

Poco chiara anche la causa di questo disastro ambientale in un’area vastissima e famosa per le sue formazioni coralline. Le prime voci parlano di una perdita da una piattaforma petrolifera situata presso Geisum, uno spuntone roccioso a 35 chilometri dalla costa. La piattaforma è gestita dalla Geisum Oil Company, una sussidiaria della compagnia petrolifera statale Egyptian General Petroelum Corporation. Secondo Magdi Radi, il portavoce del governo egiziano, “ la fuoriuscita di petrolio potrebbe provenire da una delle piattaforme offshore nel Mar Rosso a nord di Hurghada o anche da una petroliera”. Ma precisa che “la macchia è contenuta e la situazione è sotto controllo”. Mentre il ministro del petrolio egiziano, Sameh Fahmy ha comunicato che “sono stati prelevati alcuni campioni nelle zone petrolifere vicino alle piattaforme per identificarne la provenienza”.

Per gli ecologisti questi accertamenti dimostrano che in realtà la situazione non è così sotto controllo come si sta tentando di presentarla. Dopo tutto, per affrontare la perdita di una piattaforma occorrono mezzi all’avanguardia, non certo uomini su barche provvisti di reti e spugne, come mostrano le poche foto e filmati in circolazione. Le operazioni di pulizia sembrano davvero improvvisate e i mezzi utilizzati appaiono del tutto inadeguati. Tra l’altro, non è pensabile nemmeno di tenere sotto controllo i forti venti. In questi giorni, pare stiano agitando le acque, tanto da portare la marea nera in zone molto più estese e mettendo a repentaglio la stessa incolumità dei 2000 operai mobilitati che, con le loro braccia, stanno cercando disperatamente di arginare la situazione. Intanto le operazioni di contenimento e assorbimento si sono estese fino ad El Gouna, 50 chilometri più a sud da dove è iniziata la perdita di greggio.

L’Egitto non è però nuovo a circostanze di questo tipo: navi cariche di petrolio che riversano in mare il loro pericoloso contenuto, disastri quasi tutti riconducibili ad imprese di stato e sempre nascosti alla stampa per evitare di perdere quella grande fonte di ricchezza che è il turismo. Già a maggio del 1996, proprio ad Hurghada,  in corrispondenza dell’oleodotto sottomarino della compagnia statale Gapco, una perdita di proporzioni decisamente minori aveva comunque fatto ingenti danni e aveva messo a rischio molte specie di animali e molluschi che proliferano in quella zona. Nel 2004, invece, il governo britannico aveva diffuso un allarme in tutto il mondo affermando che le piattaforme di petrolio e le navi che trasportano greggio sarebbero state il bersaglio prediletto di gruppi terroristici come Al Qaeda. Forse i londinesi non si sbagliavano perché nell’agosto del 2009 una nave cisterna battente bandiera panamense improvvisamente si spezzò in due riversando, proprio nel Mar Rosso, vicino al porto di Suez, 59 mila tonnellate di nafta.

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