Il campo ha detto molto. Ma non tutto quello che si può dire di una partita viene dal campo. Sì, perchè la vittoria schiacciante della Germania ai danni dell’Inghilterra di Fabio Capello negli ottavi di finale del mondiale è lo specchio fedele di due sistemi calcistici agli antipodi. Interamente fondato sugli investimenti stranieri quello britannico; capacità organizzativa e forti impegno federale nella cura dei settori giovanili, invece, i capisaldi della rinascita tedesca. Come dire: business sfrenato contro pianificazione capillare. E i risultati delle rispettive selezioni nazionali non possono che risentire di queste tendenze. Per avere conferma, basta analizzare i massimi campionati dei due paesi.

La Premier League è il torneo maggiormente indebitato del pianeta, con una passività che sfiora i 3800 milioni di sterline. Eppure le squadre d’oltremanica da anni dominano le competizioni europee per club. Come spiegare questa dicotomia? Semplice: con gli investimenti folli, le perdite e le conseguenti ricapitalizzazioni dei paperoni di mezzo mondo, che portano in Premier League – spesso più per sfizio che per effettiva necessità tecnico/tattica – i migliori calciatori del globo, bruciando allo stesso tempo la qualità e le speranze dei giovani calciatori indigeni, abbandonati al loro destino fatto di calci di periferia e vivai mal gestiti e peggio finanziati. Del resto, se il calcio inglese non sforna talenti veri dai tempi di Rooney qualcosa vorrà pur significare.

Da qui le difficoltà di una nazionale (ultimo successo vero, i mondiali del 1966 giocati in casa) che non ha saputo approfittare della generazione dei vari Terry, Lampard e Gerrard, fuoriclasse assoluti in un panorama generale che a definirlo scadente gli si fa un complimento. Eppure il calcio inglese continua ad attirare i miliardari: perchè? Con stadi di proprietà, merchandising aggressivo, diritti tv contrattati privatamente e un gettito fiscale minimo, la Premier League è diventata il bengodi di chi ha soldi da buttare. La situazione appena descritta, però, è criticata anche dai massimi organi mondiali del calcio: “Troppi capitali stranieri” ha detto il presidente Fifa Blatter, il quale teme che, in uno scenario di questo genere, si possa creare una specie di bolla speculativa destinata prima o poi a scoppiare. La stessa preoccupazione, peraltro, è stata espressa anche dal presidente Uefa Michel Platini, il quale ha auspicato fair play nelle manovre di mercato dei grandi club europei al fine di evitare le aste ultramilionarie per accaparrarsi i migliori calciatori in circolazione.

Insomma: in Inghilterra si “fabbricano” vittorie di cartone…

E in Germania? Discorso opposto. Finita l’era delle vacche grasse – e con i club a incassare sonore sconfitte al cospetto di inglesi, spagnoli e italiani – i tedeschi hanno deciso di puntare tutto su una rivoluzione radicale del “sistema calcio”. Hanno costruito stadi nuovi, rimodernato quelli vecchi e, soprattutto, puntato tutto sui settori giovanili. Una ricetta che ormai va avanti da anni. E i risultati iniziano ad arrivare. Alcuni esempi: la Bundesliga è il campionato europeo con più spettatori e con più giocatori cresciuti nei vivai; questi ultimi accolgono ragazzini di ogni ceto sociale grazie a tariffe davvero popolari; ciliegina sulla torta, infine, la decisione di naturalizzare con frequenza i calciatori (magari giovanissimi) di orgini non tedesche. Podolski, Khedira, Oezil, Contento, Cacau, Boateng, Klose e gli altri che oggi vincono in Sud Africa sono il frutto di questa politica “globalizzata”: non tutti, del resto, ricordano che nel 2009 i giovani dell’under 21 tedesca, titolari fissi nei loro club, hanno vinto i campionati europei di categoria. Dando pure spettacolo, il che non guasta nella fisicità estrema del pallone postmoderno.

In altri termini, nel pallone di oggi si vince anche e soprattutto con il “melting pot” fatto e cresciuto in casa. E noi italiani? Chiedetelo ai vari Giovinco e Balotelli.

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