“La mia prima esperienza di lavoro? In una parola, traumatizzante”. A parlare è Veronica, 25 anni, torinese che nella vita lavora nel campo della grafica e dell’illustrazione. Due anni e mezzo fa il primo impiego presso un piccolo editore locale. “Ho lavorato circa sei mesi, da maggio a ottobre. Cinque ore al giorno e seicento euro al mese”. In nero, senza cioè alcun tipo di contratto.

Una storia che si ripete per settimane, con promesse mai mantenute. “Ogni mese mi assicurava che mi avrebbe regolarizzato, ma le settimane passavano e di un contratto manco l’ombra. Forse scocciato dalle mie continue richieste, un bel giorno d’ottobre l’editore decide che non ha più bisogno di me e mi licenzia. Eravamo alla fine del mese e dunque volevo almeno farmi pagare. In tutta risposta si è imbestialito, mi ha preso per un braccio, tirandomi su di peso e facendomi cadere su una sedia lì vicino. Gli ho chiesto di non mettermi le mani addosso, ma lui mi ha letteralmente sbattuto fuori dalla porta”. Oltre al danno, anche la beffa: la ragazza non ha visto una lira.

Pochi giorni fa, a più di due anni di distanza dal fatto, Veronica ha infatti ottenuto ciò che le spettava. “Subito dopo l’aggressione ero andata con il referto medico dai Carabinieri e poi dalla Guardia di Finanza, che ha fatto i controlli fiscali del caso”. Al processo per i contributi e il trattamento di fine rapporto, mai pagati, Veronica è riuscita a farsi valere. Il risultato sta nella sentenza del Tribunale di Torino, che ha giudicato illecito il comportamento dell’editore. Dovrà pagare alla sua ex dipendente 6.040 euro lordi di differenze retributive, 594 euro di tfr e 5.040 euro lordi come penale per recesso illegittimo. Più 1.450 euro per spese di lite e rivalutazioni Istat.

Un bella soddisfazione per la giovane precaria che oggi lavora, stavolta con regolare contratto a tempo determinato, in una tipografia. Anche perché la sua piccola grande battaglia di civiltà non era iniziata bene. Al primo processo, quello per l’aggressione fisica, l’ex datore di lavoro “se l’era cavata con poco. L’hanno semplicemente obbligato a scusarsi, cosa che ha fatto di malavoglia e senza un rammarico sincero”. Un “rospo” che aveva buttato giù insieme alla famiglia e al fidanzato, furiosi per il trattamento ricevuto dalla ragazza. “Affrontare il mondo del lavoro dopo un’esperienza del genere è stato difficile. Ma giorno dopo giorno sono scesa a patti con l’amarezza che sentivo”. Quando le chiedi se ha mai pensato di trasferirsi all’estero, la ragazza butta gli occhi al cielo: “quante volte…” Ma poi ti racconta che tutti i suoi affetti sono qui e dunque ha deciso di rimanere. Parole che accomunano tanti giovani italiani, esposti alle intemperie e ai soprusi di chi pensa che il nostro mercato del lavoro sia far west in cui tutto è lecito. Eppure nonostante tutto, conclude Veronica col sorriso, “credo ancora che questo paese si possa salvare”

Articolo Precedente

La verità in un graffito

next
Articolo Successivo

Un milanese a Palermo

next