foto di Guido Harari

Sono passati vent’anni esatti dall’uscita di Le nuvole, penultimo disco di Fabrizio De André. Un anno dopo la caduta del Muro di Berlino e alla vigilia di Tangentopoli e della discesa in campo di B, per la prima volta il “poeta degli ultimi” tuonava anatemi contro i suoi “protetti”, rei di cronica mancanza di indignazione nei confronti di un potere che dilagava indisturbato: “Ormai viviamo tutti al centro di un’immensa e dolorosa satira”, scriveva il cantautore.

“Trent’anni fa si poteva sperare di cambiare il mondo, di avere una giustizia sociale e un’opposizione seria al sistema. Oggi, purtroppo, non ci resta che la rassegnazione davanti a un mondo che è cambiato in peggio, a una giustizia e a un’opposizione fantasma.

Una rinascita la vedo soltanto attraverso una catastrofe sociale di tutte le micro-società che si chiamano nazioni. Una rinascita degli uomini che penseranno in primo luogo di appartenere a una sola razza: la razza umana”.

Tra due giorni la grande mostra multimediale dedicata alla figura e all’opera di De André, di cui sono uno dei curatori, inaugurerà a Palermo, allo Spazio Sant’Erasmo. Vi si renderà una volta di più omaggio al cadavere di Utopia, alla mummia di ideali sconfitti e cancellati. De André ha sempre sostenuto che le canzoni, se da un lato non cambiano il mondo, dall’altro possono almeno cambiare le coscienze. Non è così: le idee a volte si ammalano e, come le stelle, si spengono. A nulla serve poi inventarsi nuove religioni in un’epoca senza religioni: mi riferisco alla poetica di De André innalzata da Don Gallo addirittura a “quinto vangelo” laddove gli altri quattro, da sempre mal amministrati, continuano a fare più danni che altro.

La verità è che l’uomo compie progressi sempre più prodigiosi nella tecnica, ma nessuno in campo etico. Una grande forza morale è evaporata, insieme al senso della dignità e agli anticorpi della democrazia, e si è ormai al ripudio degli ideali, alla “pace terrificante” paventata da Fabrizio ne La domenica delle salme. Perduto per sempre il senso civico, non rimane che il senso “cinico”, per dirla con Giovanni Sartori.

Ma c’è pur sempre una realtà con cui dover fare i conti: ad esempio, una società che non può permettersi strati impermeabili né muri. De André ha parlato più volte di nomadismo, di dromomania, ad esempio in canzoni toccanti come Khorakhané. Tra pochissimi anni 250 milioni di migranti si sposteranno a causa di cambiamenti climatici irreversibili. Una reale, tangibile, inevitabile emergenza che travolgerà qualunque fumismo accademico o ideologico.

Tornando allora al discorso sui valori estinti, impossibile non condividere il raggelante realismo dello psicoanalista Luigi Zoja che, citando Enzensberger nel suo libro La morte del prossimo, scrive: “Quanto più un paese costruisce barriere per difendere i ‘propri valori’, tanto meno valori avrà da difendere”. “Come nel momento in cui Nietzsche proclamò la ‘morte di Dio’”, continua Zoja, “siamo alla soglia di un territorio radicalmente nuovo. Dove la globalizzazione favorisce la solidarietà con persone lontane, mentre cresce l’indifferenza per il vicino prodotta dalla civiltà di massa e dalla scomparsa dei valori tradizionali. Dove la morale dell’amore non è più possibile per mancanza di oggetto.

Nell’irraggiungibile impero dell’accesso, di Internet, si è sfarinata la comunità dei prossimi, della cultura e della psicologia dell’incontro tra persone. Ma quando la comunità sparisce, la morale inevitabilmente si ammala e saltano anche le antiche, semplici basi della convivenza”.

A parlare di alti valori, devono essere uomini a loro volta alti. De André, Gaber, Pasolini, una razza in estinzione. Voci purtroppo sempre più lontane di una cultura novecentesca la cui forza propulsiva si è tradotta in illogica utopia. Come ha scritto il biologo Henri Laborit, “non esiste società ideale perché non esistono uomini ideali, o donne ideali, che possano costruirla”.

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