In Francia le stanze per l’intimità dei detenuti hanno un nome importante:‘Maison Central’. In Svizzera e in Germania mettono a disposizione dei piccoli appartamenti, senza sorveglianza. In Spagna le ore di incontrollabile passione per i carcerati sono un premio. Mentre in Belgio e in Olanda è concesso amoreggiare solo una volta al mese. E in Italia i detenuti il sesso non lo fanno?

Secondo chi ha il compito di fare le leggi, no. Il sesso in carcere – per il legislatore – non esiste, al massimo è concesso parlare di affettività. Nel frattempo per i carcerati la mancanza di sesso – regolarizzato – è mutilazione, violenza, disperazione. Per noi cittadini la perdita è in sicurezza: un detenuto che torna in società dopo una pena disumana ha scarse probabilità di reintegrarsi nel rispetto delle regole. Nei paesi in cui l’uomo è detenuto – e innamorato – è stata applicata una Raccomandazione del Consiglio d’Europa del 1997,  relativa agli aspetti etici e organizzativi nei luoghi di detenzione.

“Il sesso in carcere è il grande omissis della legge italiana”, afferma Lucia Castellano, direttrice della Casa di reclusione di Bollate (l’unico istituto insieme al carcere di Opera in cui sono presenti Stanze dell’Affettività sorvegliate). I passati governi, sia di destra che di sinistra non hanno fatto niente in materia. Un testo che preveda ore d’amore per i detenuti, in realtà, esiste. Si tratta di una proposta di legge avanzata dal sottosegretario alla giustizia Maria Elisabetta Alberti Casellati. Proprio il sottosegretario dagli studi di Radio2 in quei giorni disse: “Bisognerebbe predisporre delle stanze dove potersi incontrare con le proprie mogli per un intrattenimento di carattere sessuale-affettivo. Riserverei a questi incontri lo stesso tempo dedicato ai colloqui con la famiglia, diciamo un’oretta”. Purtroppo, alle parole non seguirono i fatti. E oggi, il testo giace in Parlamento.

Del sesso fuori legge ci si ammala. Il fenomeno dell’omosessualità in carcere è consequenziale. Nelle celle, dove è vietata la distribuzione di preservativi, le malattie sessualmente trasmissibili si diffondono, complice anche la droga. Non esistono dati precisi sulla diffusione del virus Hiv, soltanto stime, perché il test non è obbligatorio. Il Simspe (Società italiana di medicina e sanità penitenziaria) dichiara di essere riuscita a testare circa il 60% dei detenuti, e fra questi tra il 7-10% ha contratto il virus. L’Associazione nazionale per la lotta contro l’aids (Anlaids) da tempo chiede l’attuazione di misure di prevenzione nei penitenziari italiani. Così some da tempo si parla di distribuzione di profilattici e siringhe sterilizzate. Ma a causa della mancanza di leggi su questa materia sono gli stessi dirigenti delle associazioni di sanità penitenziaria a bloccare ogni iniziativa del genere.

Se di sesso si può morire, di non sesso ci si può suicidare. Chi si trova a stretto contatto con le carceri lo sa bene. Marina Valcarenghi è una scrittrice e per anni è stata alla guida di un gruppo sperimentale di psicoterapia nel reparto di isolamento maschile del carcere Opera. Secondo Valcarenghi: “Più della mancanza del lavoro, della mancanza di attività sociali e culturali significative, più dell’assenza di cure psicologiche, più della sporcizia, del sovraffollamento, più di tutto è la cesura col mondo degli affetti e degli istinti che colpisce alla radice la personalità già sofferente del detenuto. Ansia, depressione, autolesionismo difficoltà progressiva di concentrazione, insonnia, scatti di violenza sono i sinonimi più frequenti di questo stato di cose”. Il passo successivo, in qualche caso, può essere il suicidio. E’ stato così per Massimo Floris, 19 anni, detenuto nel carcere Buoncammino di Cagliari in attesa di giudizio da sei mesi. Era in carcere per aver accoltellato un suo paesano durante una rissa in un bar. Il 10 novembre 2007, prima di annodare un lenzuolo alle sbarre e di impiccarsi scrive sulla propria pancia il messaggio d’addio: il nome della sua ragazza e la frase “L’ho fatto per te”. Massimo aveva ricevuto una lettera in cui la ragazza gli diceva che il loro rapporto era finito.

Adriano Sofri in un articolo intitolato “Le braci del sesso in carcere”, si chiedeva se fosse giusto che un “uomo o una donna in gabbia” incontrasse un altra persona per fare l’amore: “È perfino offensivo rispondere: certo che sì”- concludeva. Vallo a spiegare ai legulei in parlamento.

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