Lampi di disarmante arguzia sembrano accendersi sempre più di frequente. Un tempo c’era almeno il modo di distinguerli qua e là come casi su cui riflettere: ci si soffermava a valutarne l’intensità, poi si scuoteva la testa e si proseguiva pensierosi. Oggi se ne perde il conto. Ma non disperiamo: basta sceglierne uno per volta, e pazienza se altri andranno persi. Vorrei inaugurare questo blog sulla geografia (materia entusiasmante se intesa come lo era alle sue origini, ampia e interdisciplinare, dove ci stava dentro la dimensione umana e la riflessione sull’eterno rapporto tra cultura e natura), avvertendo i gentili lettori di prepararsi a un triste lutto: ormai è certo che lo studio della mia materia preferita verrà ridimensionato con la riforma delle superiori.

Dopo anni di mortificazioni, che hanno ridotto la geografia a materia mnemonica in cui prevale l’aspetto descrittivo e classificatorio su quello analitico-speculativo, ora siamo alla sua fine annunciata. E suona tanto più strano che la geografia viva un periodo di crisi proprio oggi, quando la retorica delle rivendicazioni territoriali sventola sempre più alta sulle bandiere di tutti i colori, di destra e di sinistra. O anzi, mi chiedo: che stia proprio qua l’origine della condanna a morte della geografia? la volontà di interromperne lo studio e sostituirlo con un indottrinamento ideologico, distillato dalle fervide menti di ministri e amministratori leghisti?

Ma veniamo al lampo di arguzia che più di tutti, su questi temi, ha brillato nella notte che stiamo attraversando. La volontà di insegnare il dialetto nelle scuole, o, fate voi, l’esame di dialetto veneto nel concorso per un posto di vigile urbano a Battaglia Terme, nel Padovano. È vero, la perdita di autonomia culturale dei territori, l’omologazione che appiattisce ogni attributo distintivo dei luoghi rappresenta una perdita dolorosa. Questo è indubbio. E grave soprattutto sarebbe se la letteratura dialettale andasse perduta: se svanissero nel nulla, come le esclamazioni nei bar (che per loro natura cambiano di continuo), anche le poesie di Anna Maria Bacher in walser titsch (micro lingua dialettale della minoranza etnica “d’alta quota” del Monte Rosa) o di quelle ottocentesche di Pietro Ruggeri in bergamasco. Ma studiare le poesie o impostare corsi di grammatica del dialetto ai ragazzi delle scuole è qualcosa di ben diverso.

Il dialetto è la lingua veicolare degli affetti, lo si parla in famiglia e con gli amici al bar, e come tutte le tradizioni orali cambia nel tempo e nello spazio. La forza del dialetto sta proprio nella sua spontaneità, nella sua indipendenza dal basso nei confronti dell’ufficialità alta della cultura dominante. Nella sua autosufficienza dalle regole imposte coi libri. Per questo istituzionalizzare il dialetto, cioè insegnarlo dall’alto, è la sua stessa negazione. Costringerlo in una grammatica significa ucciderlo. Loro non lo sanno, ma l’orgoglio dialettale leghista lavora contro i valori del dialetto. Il linguista tedesco Max Weinreich diceva che una lingua è un dialetto con un esercito. L’esercito leghista dovrà star bene attento con le sue scuole, perché trasformando il bergamasco in una lingua, ne decreterà la fine. Riflettete in fretta, cari amici, prima che arrivi un altro lampo a distrarre le nostre menti.

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