Le loro battaglie per ottenere la verità su Stefano, Giuseppe e Federico, hanno avuto una spinta decisiva grazie alle campagne di stampa, con la pubblicazione di foto shock e atti ufficiali. Ma quando Ilaria Cucchi, Lucia Uva e Patrizia Aldrovandi hanno deciso di unire le loro voci e partecipare per la prima volta a un incontro pubblico sui diritti negati ai loro familiari, vittime di Stato, forse non immaginavano che l’appuntamento sarebbe caduto proprio nel giorno dell’approvazione al Senato della legge-bavaglio.

Giovedì sera, a Varese, le tre donne hanno accettato di rivivere la loro esperienza e raccontare quanto sia lunga la strada per arrivare alla verità: limitare per legge la diffusione di notizie renderebbe ancora più tortuoso questo percorso. È stata Ilaria, sorella di Stefano Cucchi, il 31enne deceduto il 22 ottobre nel reparto detentivo dell’ospedale Pertini di Roma a pochi giorni dall’arresto per droga, la prima a spiegare che “per fare in modo che un pm si decidesse a svolgere le indagini abbiamo dovuto mostrare a tutti le foto del corpo martoriato di Stefano, altrimenti il caso sarebbe stato subito archiviato per morte naturale”. Il 30 maggio Ilaria ha scritto una lettera aperta al presidente della Camera Fini proprio per chiedergli un intervento sul ddl intercettazioni: “Non comprendiamo – si legge – perché debba essere impedito al cittadino che subisce un sopruso così grande, di denunciarlo e anche di provarlo registrandolo dal vivo”.

Nel testo del ddl, in realtà, non ci sono riferimenti espliciti alla pubblicazione di fotografie allegate agli atti. Fabio Anselmo, legale di tutte e tre le famiglie, spiega come questo aspetto sia però deducibile dal testo: “L’obbligo di pubblicare tutti gli atti per riassunto – dice l’avvocato – lascia pensare che, non essendo una foto ‘riassumibile’, sarà di fatto impubblicabile. Quando ci sono di mezzo casi così importanti, però, la sostanza dovrebbe prevalere sulla forma”. Diffondere, far sapere, denunciare. È la strada seguita da Patrizia, la madre di Federico Aldrovandi, picchiato a morte da agenti della polizia (già condannati in primo grado) il 25 settembre 2005. Anche Patrizia ha lanciato un appello, nei giorni scorsi, contro la legge-bavaglio. Giovedì, a chi le chiedeva che cosa possono fare i cittadini per contribuire a queste battaglie di verità, ha risposto: “Parlatene, raccontate queste storie a tutte le persone che conoscete, non stancatevi mai di dire quello che sapete”.

Un appello sottoscritto anche da Lucia Uva, sorella di Giuseppe, il 43enne fermato dai carabinieri di Varese il 14 giugno 2008 in stato di ebbrezza e deceduto il mattino dopo nell’ospedale della città. Una notte di misteri, probabili botte in caserma e diagnosi sbagliate da parte dei medici su cui non si riesce a fare piena luce. Tra pochi giorni saranno passati due anni, e la verità sarà un po’ più lontana: i tabulati telefonici delle persone coinvolte nel caso, richiesti dalla difesa, non sono stati concessi, e lunedì, allo scadere dei 24 mesi, le compagnie telefoniche li distruggeranno come normalmente avviene per legge.

Da il Fatto Quotidiano del 12 giugno

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