Il complotto contro il governo c’è davvero. Anzi è proprio una “congiura”, come ha confidato Silvio Berlusconi a un manipolo di senatori lealisti ammessi a corte martedì sera. Solo che a organizzare l’assalto all’esecutivo non è una misteriosa “forza esterna”, anche definita dal premier un “gruppo quasi organizzato”, ma il governo stesso.

I numeri del resto parlano chiaro. Nonostante le dimissioni dell’uomo dal “sorcio in bocca” (ipse dixit), Claudio Scajola, alla testa del Paese resta un gruppo dirigente che pare essere nato apposta per farsi, tutto da solo, del male. I ministri, compreso il primo, divenuti o rimasti tali pur avendo dei processi in corso sono tre: il quasi ovvio Berlusconi; il responsabile del dicastero delle Infrastrutture, Altero Matteoli, accusato di favoreggiamento in una storia di mazzette e lottizzazioni abusive all’isola d’Elba, e quello degli Affari regionali, Raffaele Fitto, rinviato a giudizio a Bari per corruzione, abuso d’ufficio, peculato, finanziamento illecito e concorso in turbativa d’asta.

Poi, visto che le statistiche raccontano come l’Italia sia ormai uno dei paesi più corrotti d’Europa – nell’ultima classifica di Transparency International sono state perse altre otto posizioni e ora Roma è sotto Ankara e appena sopra Atene – una medesima cura è stata posta nella scelta dei sottosegretari. Quattro di loro sono infatti o sotto inchiesta o sotto processo.

Si parte con l’ex prete e storico collaboratore del Cavaliere, Aldo Brancher, che dopo essere rimasto nel 1993 a San Vittore tre mesi per mazzette, è riuscito a evitare una condanna definitiva per finanziamento illecito e falso in bilancio, grazie alla prescrizione e alla depenalizzazione (di fatto) del secondo reato. Oggi Brancher ha comunque modo di rifarsi. È di nuovo sotto processo a Milano dove però non è accusato di aver dato dei soldi a qualcuno, ma di averli presi. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega al Federalismo, è imputato di appropriazione indebita per aver incassato assieme alla moglie (ricettazione) alcune centinaia di migliaia di euro dal big boss della Banca Popolare di Lodi, Gianpiero Fiorani. Il 17 aprile, ad ogni buon conto, la prima udienza del dibattimento è saltata per legittimo impedimento: Brancher era impegnato in un’imperdibile fiera ad Hannover.

Sempre a Palazzo Chigi si aggirano poi altri due indagati eccellenti. Il braccio destro del premier, Gianni Letta (amnistiato per 70 milioni di lire targati Fininvest versati nel 1989 all’allora segretario del Psdi, Antonio Cariglia) e l’uomo immagine del governo, il sottosegretario alla Protezione civile, Guido Bertolaso. Lo scorso 10 aprile, l’onorevole avvocato Niccolò Ghedini, difensore di Letta, si è presentato nella minuscola procura di Lagonegro per incontrare il magistrato titolare del fascicolo su una serie di presunti interventi di Letta (abuso d’ufficio) per favorire negli appalti e presso gli uffici delle tasse (Equitalia) una cooperativa vicina a Cl. Bertolaso, sotto inchiesta per corruzione, è invece a rischio, proprio come Scajola, per i suoi rapporti con la “cricca” e le ragazze (tutte fisioterapiste, dice lui) del loro entourage.

Legami pericolosi, ma mai quanto quelli di cui è accusato Nicola Cosentino, il sottosegretario all’Economia parente acquisito del boss dei Casalesi, detenuto al 41 bis, Giuseppe Russo, detto Peppe O’ padrino. Cosentino non è in carcere solo perché la Camera ha bloccata l’ordinanza di custodia cautelare per concorso esterno in camorra emessa nei suoi confronti. Insomma il premier, che per fermare i processi contro di sé e gli altri ministri, ha dovuto far approvare la legge sul legittimo impedimento, può pure essere convinto dell’esistenza di una spectre la quale, come ha sostenuto martedì, maneggerebbe “un dossier aperto a rate che fa parte di un’operazione ben più vasta del caso Scajola”.

Ma, a ben vedere, il capo dell’esecutivo, più che una spectre, fronteggia uno specchio. Quello del suo governo. Non che le cose, se si alza lo sguardo verso l’orizzonte, vadano meglio. Dalle relazioni fin qui depositate dei carabinieri e finanzieri che, a Roma, Firenze e Perugia, indagano sul “sistema gelatinoso” di controllo degli appalti pubblici, emerge una fotografia devastante delle classi dirigenti italiane. Altri uomini dell’esecutivo, sia pure se non formalmente indagati, appaiono costantemente impegnati a brigare con personaggi legati alla “cricca”.

Dopo averlo ascoltato parlare per telefono i detective spiegano, per esempio, che il neo sottosegretario all’Istruzione, Guido Viceconte, è “interessato a far aggiudicare appalti all’imprenditore Guido Ballari”. Mentre il ministro Matteoli, che i boatos nella maggioranza descrivono come seduto su una poltrona a rischio inchiesta, ha per sua stessa ammissione promosso a provveditore delle Opere Pubbliche a Firenze un funzionario (poi arrestato) privo dei requisiti necessari. E lo ha fatto su richiesta del coordinatore del Pdl, Denis Verdini e di un amico imprenditore. I due infatti avevano bisogno di un uomo fidato in quella posizione chiave per poter sperare di ottenere un appalto da 260 milioni di euro.

Oggi Verdini è due volte indagato (corruzione), in riva all’Arno e nella Capitale, per affari legati anche a lavori in Sardegna. Mezzo partito vorrebbe che gettasse la spugna. Il Cavaliere lo difende. Fosse stato per lui anche Scajola sarebbe restato al suo posto. “Le sue dimissioni sono state un precedente pericoloso”, ha detto martedì sera, “Claudio non era nemmeno indagato, ora chiunque potrà chiedere le dimissioni di un ministro”. Un po’ come avviene in tutti gli altri Paesi d’Europa. Nazioni dove la corruzione e il malaffare, al contrario che in Italia, non costano ai contribuenti (dati Banca Mondiale) 50 miliardi di euro all’anno.

Da il Fatto Quotidiano del 6 maggio

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