Adesso, il giorno dopo la vittoria di Nichi Vendola, sembra che tutti lo avessero previsto, tranne che Massimo D’Alema e Pierluigi Bersani. Se è vero che il segretario e la sua “balia” (Nichi dixit) hanno dimostrato di aver capito poco o nulla, non è esattamente così (anche senza contare la politica, nessun giornale, tranne il nostro aveva dato una indicazione su Vendola).

In realtà il successo del vendolismo parte da più lontano, e si spiega solo se si considerano tre fattori.
Il primo: il carisma particolarissimo e raro del governatore della Puglia (che D’Alema ribattezzava in modo sprezzante “Jacopo Ortis”, e che invece ha dimostrato di essere amato).
Secondo: l’accecamento di tutti gli oligarchi del centrosinistra (non vanno dimenticati i “dodici” partiti che si erano già iscritti a sostenere Francesco Boccia).
Terzo: le primarie hanno dimostrato ancora una volta tutto il loro potenziale “eversivo” quando si svolgono in condizioni chiare, senza risultati preconfezionati.

Sul “fattore V.” (come Vendola) abbiamo già scritto in questi giorni su il Fatto, ma occorre dire qualcosa di più. A partire dall’affermazione di Obama contro la potenza di fuoco dell’apparato della famiglia Clinton, si è simbolicamente ribaltato uno dei luoghi comuni della politica di fine novecento.
Ovvero: che le macchine organizzative cancellano sempre le individualità, che la potenza economico burocratica degli apparati sia invincibile. Obama ha dimostrato che nel tempo moderno, l’uso intelligente dei nuovi media, a partire dalla rete, permettono di ribaltare il gap tecnologico, esattamente come a fine ottocento i moderni partiti di massa mandarono in soffitta il vecchio liberalismo giolittiano.

L’esperienza della “Fabbrica di Nichi”, con i suoi giovani internauti entusiasti (e solo 30mila euro di budget per mobilitare 200mila persone!) mette un paletto anche in Italia.
Boccia aveva a disposizione tutte le armi tradizionali: i sei per tre in tutta la Puglia, il consenso di tutti i dirigenti locali, soldi e strutture di partito, un grandissimo comitato (vuoto), i suoi assistenti parlamentari (è deputato), e non è riuscito a raggiungere nemmeno il 30%.
Perché? La prima risposta è ancora quella di Obama. E’ finito il tempo dei candidati che tendono al leggendario centro, al moderatismo, ai colori pastello (e in definitiva al nulla).

Nel terzo millennio e nel tempo di internet, vincono le storie, o – come direbbe Vendola – “le narrazioni”. La storia di Vendola, figlio della Puglia, omosessuale, diverso, comunista, nato come dice lui “con le pezze al culo” e asceso alla leadership, è una storia in cui si può riconoscere anche una parte di elettorato di centrodestra, una storia che abbatte le ideologie malgrado la radicalità che esprime.

Il secondo aspetto è la coerenza: Vendola non è nato estremista per finire moderato, non ha contratto la malattia fatale di tanti post-comunisti italiani. Si candidò la prima volta con il suo orecchino, e la sua campagna choc (“Sovversivo”) ed è tornato da governatore proponendo la stessa radicalità: “Solo con(tro) tutti” (come recita un’altra geniale campagna della stessa agenzia, i creativi della Pro-forma).
Uno slogan così azzeccato che è finito su tutti i giornali e sulle bocche di tutti malgrado non ci fossero i soldi per comprare manifesti. La narrazione di un leader non tollera il lifting, ma ha bisogno vitale della coerenza.

Infine Vendola ha un naturale intuito per i simboli: i fuorisede che hanno fatto i master pagati dalla regione (“Bollenti spiriti”) che tornano con gli autobus non sono mille voti cammellati dai capibastone, ma contano molto di più perché diventano una iniezione di entusiasmo che mobilità e appassiona, un altro capitolo del romanzo. E’ per questo che le video-lettere di Vendola su Internet facevano più clamore dei comizi del segretario del Pd a favore di Boccia. Quanto a D’Alema (e al suo Bersani). Fino a ieri i giornali gli lasciavano passare frasi deliranti come: “Non ho mai perso una elezione”.

In realtà si fatica ricordare quand’è l’ultima volta che abbia vinto. Sconfitto come premier, sconfitto come bicameralista, battuto come candidato al Quirinale e alla presidenza della camera. I 200 voti pugliesi hanno dimostrato che l’unica cosa virtuale era lui, esattamente come i 500 mila del No-B-day hanno dimostrato che era virtuale il boicottaggio del Pd e reale la mobilitazione della gente.

D’Alema ha provato fino all’ultimo a far vincere Boccia confidando nel potere salvifico del suo carisma: ha portato il povero Bersani sul baratro imponendogli le sue scelte (che oggi si rivelano suicide). Siccome la rovina a cui il Pd sembra destinato se continua su questa strada non servirebbe a nessuno, sarebbe bello se questi leader potessero rinsavire.
Solo in una cosa sono coerenti: temono le primarie come la peste, perché sono il grimaldello che può scardinare le loro scelte di apparato.

Ecco perché la Puglia non è una bella storia locale o un episodio isolato, ma uno dei grandi terremoti – insieme alla manifestazione del popolo viola – che può far risorgere il centrosinistra soffocato dalla burocrazja. A patto che i suoi generali cambino. O che vengano cambiati i generali.

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