Donata Almici, sempre in prima fila per il rigore. Costretta a dimettersi dal Cda di Brera

Questa è una di quelle storie che vanno raccontate scoprendo subito le carte. Perché la protagonista è amica di chi scrive. Ma nel caso il rapporto di amicizia va a beneficio del lettore, perché ha aiutato la conoscenza in diretta dei fatti che qui si narreranno. Lei è un architetto, con il dono della pittura. Che vive contromano fin dai natali. Donata Almici, questo il suo nome, è infatti originaria di Coccaglio, il paese bresciano proiettato recentemente in prima pagina dalla strabiliante idea del White Christmas partorita dal sindaco leghista per combattere l’inquinamento etnico. E, pur venendo da una delle famiglie borghesi più antiche di Coccaglio, sfoggia come massimo motivo di orgoglio una nipotina di colore in nome della quale si batte come una tigre contro ogni battuta razzista, a Coccaglio ma anche a Milano.

Ha un carattere tosto, l’architetto, intollerante solo verso la corruzione e i clientelismi. E fu proprio questo temperamento a portarla, nell’85, a essere (ecco dove nacque l’amicizia) tra i soci fondatori del circolo milanese Società civile, impegnato in prima fila contro il degrado etico della vecchia "capitale morale" del Paese. Un temperamento gettato anche nella vita associativa della professione. Per esempio da direttore di AL, il giornale degli architetti della Lombardia. Funzione non contestata da nessuno fino all’esplosione di Tangentopoli.

Quando inizia a salire la marea degli scandali, l’Almici fa una scelta: dare la parola al mondo degli architetti. I quali scrivono ad AL per denunciare la condizione di corruzione e monopolio abusivo che caratterizza la professione a Milano e hinterland. Un monopolio goduto da una ristretta cerchia di architetti facenti capo ai partiti della sinistra: Epifanio Li Calzi, Andrea Balzani e Claudio Dini soprattutto. A quel punto il presidente dell’ordine di Milano Demetrio Costantino, anziché tuonare contro gli inquisiti, chiede le dimissioni di lei dalla direzione del giornale e, non ottenendole, compie la scissione. L’ordine di Milano si fa un house organ tutto suo e invia un richiamo alla moralizzatrice, rea di essere intervenuta sul tema anche sull’Espresso e su altri giornali. Una scomunica da qui all’eternità, parrebbe; se è vero che due anni fa AL (tornato a essere il giornale unitario degli ordini lombardi) ha dedicato un numero monografico alla propria storia pubblicando un’intervista a tutti i direttori; tutti tranne lei, che aveva annunciato di volere ribadire i suoi eretici convincimenti.

Ebbene, è per questa sua storia che nel 2007 il Ministero dell’università (dove chi scrive era sottosegretario), dovendo rinnovare i propri rappresentanti nei consigli di amministrazione delle accademie di Belle Arti, quando arriva il turno di Brera pensa a lei. Tra i molti problemi che emergono in accademie e conservatori vi è infatti quello del rigore amministrativo, che dà luogo, fra l’altro, a diversi commissariamenti. Donata Almici arriva a Brera con il nuovo presidente Gabriele Mazzotta. E si imbatte in questioni che sollecitano subito il suo uzzolo moralistico. Gli appartamenti della Fondazione Lombardo Croci, ad esempio. Destinati a sostenere artisti indigenti e invece concessi a condizioni di estremo favore, rispetto ai valori di mercato, a docenti dell’Accademia; con le entrate (circa 50.000 euro l’anno) destinate a finanziare mostre. Quest’anno finalmente il consiglio d’amministrazione ha ottenuto, dietro sua insistenza, che i canoni vengano adeguati e i proventi effettivamente corrisposti ad artisti in difficoltà.

"Sotto Natale ha telefonato un vecchio professore di Brera, bisognoso, e ha chiesto se fosse uno scherzo", dice lei, che considera quella telefonata una sua vittoria. Ma soprattutto quel che la porta in tensione con larghe fette dell’Accademia è il clamoroso avanzo di bilancio, che lei scodella all’attenzione della stampa milanese, in particolare del Corriere. Nella primavera del 2008, in sede di bilancio consuntivo, scopre che c’è un attivo di otto milioni e mezzo di euro parcheggiato in banca mentre i locali di Brera vivono una più volte documentata e lamentata situazione di degrado.

"Inconcepibile incapacità di spesa", commenta lei. "E il bello è che dopo averlo fatto rilevare al Consiglio Accademico, che è l’organo titolato a fare le proposte di spesa per la didattica, quest’anno l’avanzo è aumentato di un altro milione di euro. Di fronte a questa anomalia abbiamo fatto abbassare le tasse degli studenti, per un totale di un milione e centomila euro in meno. E visto che parliamo di studenti, come si fa a non indignarsi quando ci si accorge che ci sono 450.000 euro di borse di studio non assegnati, che si è fatta una commissione per risolvere il problema e a distanza di un anno ancora quelle somme non sono andate agli allievi meritevoli? Qui sui giornali si parla di Brera ormai solo per polemizzare sul suo trasloco parziale nella caserma di via Mascheroni. Si sono inventati anche la bufala dell’uranio impoverito nei nuovi locali o che la caserma sarebbe una topaia. Ora, l’uranio impoverito è sempre l’eredità di bombardamenti aerei, e qui a Milano non se ne sono visti, mi pare. Quanto alla topaia, non solo non è vero, ma semmai bisognerebbe vedere lo stato di alcuni locali di Brera: assenza delle minime norme igienico-sanitarie o di sicurezza, abbiamo dovuto avviare dei primi interventi con il Provveditorato alle opere pubbliche. Sul trasferimento, che sarebbe solo parziale (le discipline storiche resterebbero in via Brera) e consentirebbe comunque di avere una superficie totale più estesa, si può anche discutere. Il guaio è che questa polemica fa sparire la questione del rigore gestionale. E certo a molti non dispiace. Ma è possibile che nell’ultimo consiglio mi sia vista proporre delle cifre di centinaia di migliaia di euro di spesa, ripeto, centinaia di migliaia di euro, senza alcun progetto, sotto la voce generica, che so, ‘iniziative culturali’ o ‘acquisti di beni e servizi’?".

Conclusione non scontata, almeno in Italia. Dimissioni. In un contesto invece scontatissimo: silenzio assoluto. Una perfetta metafora dell’Italia al rovescio. L’architetto in prima fila a denunciare gli intrallazzi della professione che subisce il richiamo del suo ordine. L’amministratore pronto a denunciare i misteri di bilancio di una grande istituzione culturale che invece di suscitare dimissioni altrui è costretto a dimettersi. Storie di un paese che non cede. Ma che paga il prezzo amaro di tenere alla sua faccia.

Da Il Fatto Quotidiano del 27 dicembre

 

 

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