Sono pochi secondi, ma raccontano la fine di Alitalia meglio di tutti i bilanci e le relazioni dei tribunali fallimentari. Dal podio Georgia Bava, banditore della casa d’aste Finarte, alza il martelletto per la centoquarantaseiesima volta in tre ore e dichiara invenduto il murale di tre metri per quattro Zeus partorito dal sole di Gino Severini.

Era il quadro più importante della collezione di Alitalia che è andata all’asta martedì sera, in un palazzo di via Margutta, a Roma. Un quadro con una quotazione minima di 350 mila euro che riassume l’atmosfera di un’epoca diversa, quando il talento futurista del romano Severini veniva messo al servizio delle ambizioni della compagnia di bandiera. Era il 1954 quando la Lai e Alitalia inauguravano l’agenzia comune di Parigi, con l’enorme quadro di Severini ad accogliere i clienti, mastodontico biglietto da visita della frenesia italiana negli anni del boom.

Oggi la nuova Alitalia, parola del suo amministratore Rocco Sabelli, sogna di essere una compagnia low cost tagliando tutte le voci di spesa.

Ma per una breve stagione, una ventina d’anni prima di sprofondare nel quindicennio infinito che ha portato alla privatizzazione pagata dai contribuenti, l’Alitalia voleva dare ai suoi passeggeri “l’impressione di essere non già su un soffice tappeto di nuvole ma in una galleria di via del Babuino”, come recitava un cinegiornale d’epoca proiettato in apertura dell’asta. Poi il collasso finanziario, il passaggio dell’attività a Cai (la compagnia degli imprenditori italiani raccolti da Silvio Berlusconi per evitare la conquista da parte di Air France). E il compito affidato al commissario Augusto Fantozzi di vendere tutto il possibile, per ripagare i debiti. “La vendita della collezione artistica è un atto dovuto”, dice il vice di Fantozzi, Antonio Leozappa presente all’asta.

In sala – nella notte romana dell’Immacolata – c’erano oltre 400 persone attirate dai prezzi bassi di partenza (il catalogo indicava una base di 50 o 70 euro per dei De Chirico poi venduti a oltre mille euro). Ma c’era anche quello che i “mercanti” presenti, come si definiscono tra loro i galleristi, hanno definito “il sovrapprezzo Alitalia”. Per un gallerista, un quadro che ha nel “curriculum” la provenienza Alitalia significa la certezza di spuntare un prezzo più alto, e per un collezionista la spartana cornice di legno a prova di turbolenza vale quasi quanto il dipinto. L’asta parte a rilento, i primi lotti non si vendono. Poi le cifre iniziano a salire, arrivano i pezzi pregiati, il martelletto si alza e si abbassa mentre scrosciano gli applausi nella sala laterale che riesce a seguire l’asta solo grazie a un funzionario della Finarte che, arrampicato su una colonna, grida le offerte di quelli troppo lontani dal banditore. “Non ho mai visto tanti telefoni a un’asta di questo genere”, dice un giovane gallerista, osservando la fila di ragazze che dai cordless trattano le cifre alte per clienti che preferiscono restare a casa, senza esporsi agli sguardi della platea. E così, un pezzo dopo l’altro, la collezione che fu vanto della compagnia di bandiera, celebrata dalle copertine di una rivista indimenticata dagli antiquari, “Freccia Alata”, si frammenta nelle case romane dei collezionisti che alzano il cartoncino numerato. Qualcuno riesce anche a fare un affare, come l’acquirente (misterioso perché telefonico) di un quadro di Francesco Lo Savio a soli 20 mila euro.

“Regalato”, commentano tra loro gli esperti in sala, anche se tutti i prezzi vanno maggiorati di quasi il 50 per cento, tra Iva e commissioni della casa d’aste. Poi c’è chi, già sconfitto più volte, si intestardisce a rilanciare e finisce per strapagare un pittore con poco mercato come Toti Scialoja.

Ma per lo Zeus di Severini l’effetto Alitalia non basta: costa troppo ed è un quadro che pochissimi privati – “forse solo il presidente del Consiglio”, dice un esperto del settore – potrebbero permettersi. Banche e istituzioni, in questo periodo, disertano le aste, perché i soldi a disposizione sono pochi e non si spendono, anche se con la crisi i prezzi dell’arte sono crollati e questo è il momento per fare affari. E così Alitalia si trova, come sempre, associata a problemi dal lato finanziario: la Finarte si deve accontentare di incassare poco più di 800 mila euro, meno della base d’asta di un milione di euro stimata alla vigilia, perché non è riuscita a piazzare il quadro che doveva fare la differenza. E che resta così a Fantozzi, anche se Finarte ha già annunciato di volerci riprovare ad aprile, quando tornerà a offrirlo al pubblico.

Dopo la delusione sul Severini – il pubblico sperava in un duello a colpi di decine di migliaia di euro, invece niente – la sala comincia a svuotarsi. Nel cortile di Palazzo Patrizi si riversano ex dipendenti di Alitalia, quasi tutti a mani vuote, e i galleristi che hanno mancato il quadro obiettivo. Con il disincanto degli sconfitti rievocano capolavori “misteriosamente scomparsi o sostituiti da copie ben fatte, perché negli anni i dipendenti si sono portati via di tutto”. E si celebra il ricordo di “un capitello romano in una sede di Tokyo che vale una fortuna” e che chissà quale sorte gli è toccata.

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