Sarà deformazione professionale, ma non posso fare a meno di tirar fuori il latino per avviare una breve osservazione. La parola “precario” – un aggettivo che il disastro contemporaneo ha sostantivizzato, “il precario”, “i precari” – tiene in sé il tema del precor (pregare), che a sua volta deriva probabilmente da posco (chiedere). Non si tratta di una notazione per semplice gusto di erudizione: semmai di uno dei tanti casi in cui lo studio etimologico affina la riflessione. Precario significa “ottenuto come favore con preghiere”; il percorso dall’originario “chiedere” al “pregare” riflette curiosamente quello – culturale, sociologico, esistenziale – che il vero e proprio sconfinato esercito che sono i pecari della scuola ha dovuto affrontare. Un esercito affamato ad arte e trattenuto da un fuoco di fila di promesse che, governo dopo governo, si sono esercitati a profondere nel tempo breve delle campagne elettorali, senza mai dar ad esse seguito negli spazi lunghi della vita quotidiana.

Una programmazione allegra, demagogica e irresponsabile dei posti previsti ha gettato negli anni sul mercato del lavoro – in nome di una flessibilità ante litteram – migliaia di donne e uomini che hanno prestato la propria opera senza garanzie definitive, spesso iniziando a lavorare ad ottobre e concludendo il giorno dello scrutinio estivo: ferie non pagate, sedi svantaggiate, mancanza di continuità didattica, mancanza di continuità nell’anzianità di servizio. Si tratta di persone che hanno dato una mano concreta e consistente a mandare avanti la scuola italiana. Per mesi, per anni, coltivando una speranza di assunzione in ruolo che oggi si rivela a questa generazione di insegnanti maturi ed esperti, ma paradossalmente priva di diritti esigibili, inaspettatamente velleitaria. Oggi – come nel più triste dei ciclici rituali a cui siamo sottoposti – si parla tanto di loro. Se ne parla perché saranno loro a pagare nel più insensato dei modi la più insensata delle manovre di taglio economico mascherata da politica del rigore e della serietà e da (contro)riforma scolastica: l’abbattimento di 82.000 posti di lavoro di docente e di 42.000 posti ATA nei prossimi 2 anni, che si inseriscono nel “risparmio” di 8 miliardi sulla scuola pubblica.

Ai “questuanti” di una stabilità promessa e mai ottenuta, di garanzie da ritenere per sempre obsolete (considerata la cura da cavallo a carico della scuola pubblica annunciata da Gelmini nell’estate 2008 e concretizzata da Tremonti in Finanziara), il Governo riserva trattamenti di tutto rispetto: l’incontro con i sindacati del 3 settembre non ha stabilito alcuna estensione degli ammortizzatori sociali, nessuna risorsa in più per i precari, conferma dei tagli previsti anche per i prossimi anni, nessuna certezza sulle stabilizzazioni del personale docente e ATA. E i sit-in, le mobilitazioni, le proteste democraiche che in questi giorni si stanno susseguendo per sottolineare – nel silenzio di politica ed opinionisti – il disagio per un precariato che ormai è condizione esistenziale priva di qualunque reversibilità, sono accolti da un imbarazzante dispiegamento di forze di polizia; talmente esuberante che susciterebbe un sorriso ironico. Se non fosse il segno tangibile e drammatico della vergognosa deriva alla quale il nostro Paese si sta abituando.

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