Ringrazio i commentatori. Non ne attendevo tanti. Sono abituato al dialogo con una persona alla volta. Prima di tornare a chiudermi in quello, provo a dare una risposta complessiva.

Aver scritto rapidamente non vuol dire aver pensato solo in quell’attimo. Ho utilizzato appunti presi anni fa negli Stati Uniti: pur trascurando le pagine intitolate Celebrities, facevo eccezione per Michael Jackson, colpito dalla dimensione tragica che scorreva sotto le sue vicende. Leggevo New York Times e Washington Post. I quotidiani (o i blog come Antefatto, credo) operano in modo diverso dagli storici, che hanno bisogno di fonti primarie: possono rifarsi ad altri quotidiani, considerati attendibili. Lì si arresta, in genere, l’orizzonte informativo del lettore medio (e anche quello del lettore desideroso di verità, che abita qualche gradino più su). Negli anni scorsi, il dibattito americano (e questo è rilevante perché MJ era mito americano, poi sottoposto a globalizzazione) verteva molto sulla vita privata di MJ (come in quello sulla “immoralità” di Woody Allen qualche anno prima, per tradizione puritana le valutazioni negli USA erano molto più severe che da noi).

Come diversi partecipanti al blog ricordano (e come ho scritto anch’io) MJ è stato processato per pedofilia, non condannato. Anche se è stato assolto, le accuse hanno continuato ad accumularsi e l’opinione pubblica a dibatterne. Nell’immaginario collettivo, la confusione resta quando un individuo diventa un simbolo pubblico che ognuno continua ad usare, in buona parte, per soddisfare bisogni privati (come sanno gli eredi di Dreyfus, che a un secolo dalla dimostrazione completa di innocenza si scontrano ancora con blocchi anti-dreyfusardi in tutta la Francia). Anche MJ si è fatto simbolo collettivo (cosa di cui era ben consapevole, avendo agenti e consulenti per l’immagine). A questo simbolo appartiene una negazione della distinzione etnica, razziale e persino dermatologica (ha dichiarato in interviste che voleva la pelle più chiara possibile) dell’identità. In questo intreccio è possibile isolare patologie strettamente fisiche? L’ansia si somatizza: e la pelle è proprio la parte del corpo che più manifesta i disturbi psicosomatici. I mali del corpo inevitabilmente incidono sulla identità. Ma i problemi d’identità altrettanto certamente affliggono il corpo: si giunge così a un circolo vizioso, non a un uovo o gallina di cui si conosca l’origine.

Mi sembrerebbe significativo riflettere, più che sugli aspetti di patologia individuale, su quelli di patologia collettiva di cui inconsapevolmente il personaggio-simbolo può farsi portatore. Tanto più significativo per un pubblico accomunato dalla preferenza per letture (Fatto, Antefatto, Chiarelettere) che cercano di opporsi all’individualismo, mobilitando senso critico e responsabilità comuni.

Anche la psicologia e la psicanalisi – che nel secolo XX hanno costituito, per dichiarata volontà di Freud e di Jung, uno strumento di critica culturale prima che una cura individuale – si stanno allineando all’individualismo, tradendo quelle premesse e limitandosi ad essere strumenti clinici per singoli privati.

Traducendo ancora in altre parole Freud e Jung, nessun epoca è povera di miti. Ma certe epoche sono, più di altre, povere di consapevolezza. Così, vivono i propri miti inconsciamente, in forma patologica. La psicoanalisi, però, si occupa oggi poco di questi aspetti.

Un’altra cosa che la critica culturale del XXI secolo dovrebbe dibattere è  come, nel corso del XX secolo, fra i personaggi-simbolo i signori delle lettere abbiano ceduto radicalmente il posto ai signori del suono (poi, con TV e computer, del suono abbinato a un’immagine): Franz Werfel ricordava ancora che – diremmo oggi – le icone o i miti dell’inizio 1900 erano non soltanto gli scrittori, ma proprio i poeti (nel suo caso: Rilke). Naturalmente quel declino non corrisponde solo alla disgregazione della Belle Epoque e dell’Impero Austriaco: il progresso aiutava la diffusione del suono più che la carta. Già negli anni ’30 Joseph Roth scrive a Stefan Zweig che la loro battaglia di scrittori è perduta: pur essendo autori di successo, li leggono quattro gatti rispetto a quaranta milioni che ormai ascoltano alla radio i discorsi di Göbbels. Intorno a metà secolo, in Egitto le radio sono ancora pochissime e le TV nessuna: eppure, Umm Kulthum è non la cantante, ma la persona più nota del mondo arabo. Al suo funerale, malgrado le mancanze di trasporti, partecipano al Cairo quattro milioni di persone (proporzionalmente alla popolazione degli Stati Uniti, dovrebbero giungerne quaranta milioni ai funerali di MJ).

La tecnica aiuta a capire questo spostamento, ma da sola non lo spiega. Una ragione può stare nella eccezionalità dell’organo sensoriale-orecchio (che, notava Adorno, a differenza degli altri organi non si può chiudere). Indirettamente, il fatto che sia più difficile sottrarsi al suono che ad altre percezioni è dimostrato anche dalla psichiatria: nelle allucinazioni, quelle visive, olfattive, tattili sono poco frequenti, quelle uditive, assolutamente prevalenti.

Tornando a MJ, qualche commentatore ha parlato di occasione mancata, legata alla sua immensa fama e potenziale influenza. Anziché agli assertori dei diritti civili degli afro-americani, MJ, con la negazione della propria identità, può aver fornito aiuto ai negazionisti.

I personaggi simbolo hanno oneri commisurati agli onori. Stare in equilibrio a metà strada, camminare sulla corda tesa è loro quasi sempre negato. Cercando di sottrarsi all’impegno si scivola nel peccato di omissione: e, se il regime dominante è ingiusto, si può essere accusati di colludere con esso. Così, per restare in campo musicale, Amalia Rodriguez, la più nota cantante di fado di tutti i tempi, fu criticata come complice della dittatura di Salazar. Così, non è illegittimo chiedersi: MJ è stato uno strumento acritico di una dittatura del mercato senza valori?

C’è un’altra domanda morale cui ognuno si darà una risposta personale. In un certo senso, più antico ed universale ancora dei comandamenti ebraico-cristiani è quello di Eschilo (Agamennone): gli uomini sono ingiusti quando preferiscono l’apparire all’essere. E’ vero che questo dilemma morale schiaccia oggi ogni personaggio pubblico e che esser solo schivi non è la soluzione (se si fosse dato retta a Kafka, i suoi scritti non sarebbero mai stati pubblicati). Ma nella immagine pubblica di MJ l’affermazione dell’apparenza si combina con una sconcertante negazione di quel baricentro dell’essere che chiamiamo identità. Sentire in questo una antinomia tragica (a differenza, ad esempio, dell’antitragico primato dell’apparire sull’essere che avvertiamo nella politica italiana) può provocare interesse ed anche com-passione. Non assolvere dalla responsabilità di una epocale occasione smarrita in un Neverland.

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